È ormai da diverso tempo che l’Iran si trova nell’occhio del ciclone. Tutte le testate giornalistiche non fanno altro che aggiornarci sui continui sviluppi della situazione nel Paese, sulle continue rivolte e proteste da parte del popolo contro il governo.
In questo articolo cercherò di spiegarvi al meglio non solo ciò che sta succedendo al momento, ma anche e soprattutto come siamo arrivati a questo punto, partendo dall’occidentalizzazione che aveva messo in atto lo Scià Mohammad Reza Pahlavi negli anni ’70, per poi passare alla dittatoriale Repubblica Islamica portata avanti dall’Imam Khomeyini.
Ma ciò che vorrei fare non è parlare di una “semplice” (perché semplice non è) questione storico-politica, ma delle donne vittime di questo regime e delle donne che hanno preso coraggiosamente parte alla lotta per far sentire la propria voce nella storia, come Vida Movahedi (attivista iraniana per i diritti umani) e Nasrin Sotoudeh (avvocata e attivista), a cominciare da una delle più grandi giornaliste, Oriana Fallaci, che riuscì a intervistare Khomeyni gettando poi il chador ai suoi piedi, in segno di disprezzo.
Ma un passo alla volta, anche perché parlare di uno Stato con una storia e una cultura così complesse non è un’impresa facile.
Comincio con il rispondere alla prima domanda di chi non è informato sui recenti avvenimenti: che cosa sta accadendo in Iran? Perché tutte queste proteste?
Tutto ha avuto inizio il 15 agosto dell’anno corrente 2022: il presidente Ebrahim Raisi ha firmato un decreto contenente tutta una serie di nuove restrizioni sulla libertà femminile, riportando il Paese a una situazione estremamente simile a quella attuata da Khomeyni nel ’79, ma di questo vi spiegherò meglio dopo.
Tra queste strette soffocanti, ovviamente, spiccano l’utilizzo obbligatorio dell’hijab e la castità della donna. Infatti, già a partire dalla “Giornata dell’hijab e della castità” (istituita dal governo proprio quest’anno, il 12 luglio), sono cominciate manifestazioni di malcontento da parte delle donne, che si sono tolte il velo in segno di protesta.
Questo gesto segue la scia dell’azione perpetrata da Vida Movahedi, la donna simbolo della lotta contro il velo islamico, nel 2018, quando decise di togliersi pubblicamente l’hijab per esprimersi contro l’obbligo di indossarlo. Fu arrestata e successivamente rilasciata su cauzione. E prima di lei, l’avvocata Nasrin Sotoudeh, che nel 2010 venne arrestata e condannata a 11 anni di prigione, con l’accusa di aver diffuso menzogne contro lo Stato. Nel 2018 è stata nuovamente processata per “reati di sicurezza nazionale”, condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate per “incitamento alla corruzione e alla prostituzione”.
Giusto per fare un minimo di chiarezza, con il termine hijab si intendono diverse cose: prima di tutto, si tratta di una parola araba che vuol dire “rendere invisibile, celare allo sguardo, nascondere, coprire”. Con il vocabolo hijab si identifica il velo islamico che copre in minima parte la donna: il capo e il collo, lasciando il viso scoperto.
Esistono vari tipi di “coperture islamiche”. In ordine, dal meno coprente (hijab escluso) al più coprente: il niquab, il chador e il “famigerato” burqa.
Dovete sapere che, in realtà, nella cultura islamica il velo è una parte integrante. Sembra che le prime apparizioni di una sorta di “mantello” risalgano all’antica Mesopotamia. Questo indumento serviva per distinguere i ranghi sociali: le donne rispettabili lo indossavano, mentre le serve e le prostitute non potevano.
Questo primo chador (ovvero una sorta di grande foulard che copre il corpo femminile dalla testa alle caviglie, lasciando esposti il viso, le mani e i piedi) venne poi adottato dai sovrani persiani (e ricordiamo che la Persia era l’odierno Iran), con lo scopo di nascondere le proprie mogli e concubine alla vista altrui.
Il resto è storia: il velo islamico ha sempre fatto parte del panorama religioso e culturale del Medio-Oriente. In alcuni Paesi vengono più usati certi tipi di velo piuttosto che altri: per esempio, in Iran è sempre stato molto diffuso il chador, poi “sostituito” dall’hijab grazie alle generazioni più giovani. Mentre in Afghanistan è diffuso il burqa, che ricopre interamente la donna, viso compreso, gli occhi sono nascosti dietro a una retina.
Va comunque precisato che indossare il chador (da non confondere con l’hijab) non è mai stato obbligatorio in Iran, tranne che per i luoghi di culto. Anche per entrare nelle nostre Chiese ci vuole un abbigliamento consono, teoricamente, niente canottiere o minigonne.
Per quanto si possa aprire un dibattito sulla questione abbigliamento-fede, non mi dilungherò sull’argomento in questo articolo.
Tornando alla situazione attuale, le proteste cominciate con l’inasprimento delle leggi ad agosto sono aumentate dal 16 settembre in poi, dove la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la morte di Mahsa Amini, una giovane ragazza che si trovava con la famiglia nella città di Teheran. La polizia religiosa morale iraniana, la Gasht-e Ershad (ovvero un corpo di polizia istituito nel 2005, voluto dalla parte del governo iraniano più conservatrice) ha arrestato la ragazza, accusandola di non aver indossato il velo nella maniera corretta e più consona.
Mahsa Amini è stata brutalmente picchiata all’interno dell’edificio delle forze dell’ordine e queste percosse l’hanno uccisa, dopo due giorni di sofferenza in ospedale. Aveva solo 22 anni…
La polizia ha dichiarato che Mahsa Amini fosse stata vittima di un malore improvviso, ma nessuno ha creduto a queste dichiarazioni, a partire proprio dalla famiglia della povera ragazza.
Le donne e il popolo sono insorti immediatamente dopo il funerale della giovane, contro il sistema politico degli ayatollah.
Per chi non lo sapesse, l’ayatollah è la Guida Suprema, una sorta di evoluzione 2.0 di un prete. Come avrete intuito dal nome della forma di governo che ha preso piede in Iran (Repubblica Islamica), la politica si basa principalmente sulla religione ed è l’ayatollah stesso (in questo caso, Ali Khameini) a decidere quali leggi mettere in pratica, seguendo la Shari’a, ovvero la legge sacra della religione islamica basata sul Corano.
Le proteste hanno raggiunto livelli storici, così come le repressioni da parte del regime, che ha già condannato a morte diversi manifestanti. Sfortunatamente, non si tratta di parole gettate al vento, di minacce: pochi giorni fa, l’8 dicembre, Mohsen Shekari, un 23enne che aveva preso parte alle rivolte contro il governo, accusato di “inimicizia contro Dio” per aver “bloccato la circolazione stradale”, è stato impiccato.
E non solo lui. Un altro 23enne, Majidreza Rahnavard, ha trovato la morte per impiccagione perché anche lui aveva partecipato alle rivolte.
Le sue ultime parole: “Non pregate, non leggete il Corano, ma suonate musica allegra.”, un appello che richiama alla libertà.
Secondo ONG Iran Human Rights, dall’inizio delle proteste, scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, ci sono stati 378 morti e oltre 15mila arresti. (fonte, ANSA e Skytg24)
Ma per comprendere al meglio il perché tutta la popolazione si sia rivoltata contro il proprio Paese, dobbiamo tornare indietro nel tempo, precisamente al 1921, con la nascita della Dinastia Pahlavi. Il sovrano dell’epoca, Reza Khan, aveva una mentalità decisamente aperta e non solo si preoccupò di migliorare trasporti, istruzione e sanità in tutto il Paese, ma avviò un processo di occidentalizzazione che prediligeva il nostro tipo di abbigliamento.
Prima dell’avvento della Repubblica Islamica, sotto lo Scià Mohammad Reza Pahlavi (Scià è il nome che designa i sovrani iraniani), tra il 1941 e il 1979, ogni donna era libera di mostrarsi al mondo per ciò che era: una donna, appunto. Le ragazze indossavano i vestiti occidentali, minigonne, scollature, capigliature alla moda.
Potevano guidare, studiare, lavorare, non erano dipendenti da una figura maschile, non erano costrette a indossare un velo.
Potevano girare tranquillamente per strada da sole, bere alcol, leggere libri, ascoltare la musica e frequentare i locali notturni.
In poche parole: erano libere.
Poi arrivò il 1978 e cominciò un vero e proprio incubo per le donne.
Dovete sapere che il governo di Pahlavi non era tutto rose e fiori: i gruppi di conservatori islamici e fondamentalisti religiosi avevano organizzato diverse rivolte nei confronti della sua opera di occidentalizzazione, che risultava, in un certo senso, piuttosto forzata, a parer loro.
Effettivamente, già nel 1939, lo Scià Reza Pahlavi aveva posto un vero e proprio divieto all’utilizzo del chador proprio perché voleva modernizzare il Paese. La nota dolente di questo atto furono gli arresti delle donne trovate a indossarlo e costrette a toglierlo.
Le proteste contro la modernizzazione iraniana, infatti, arrivavano anche da donne più anziane o comunque più attaccate alle tradizioni islamiche.
Quando l’ayatollah Khomeyni tornò dall’esilio in Francia (messo in atto nel 1963 dallo Scià stesso, dopo una tentata congiura contro di lui), venne acclamato da questi individui. Egli aveva alimentato non poco le rivolte contro Pahlavi, nonostante si trovasse all’estero, quindi non fu così difficile far insorgere le masse contro il sovrano e costringerlo ad allontanarsi dal Paese.
Khomeyini subentrò nel 1979, divenne il nuovo Scià e impose la Repubblica Islamica.
Ogni tentativo di occidentalizzazione venne condannato e bandito.
Nel 1983, il velo islamico (l’hijab) divenne obbligatorio.
Per le donne cominciò una discesa verso una vera e propria prigionia, che continua ancora oggi, a più di 40 anni di distanza.
Ma nell’aria di rivolta si sente un’eco lontana, un’eco che suona di lotta e obiezione, l’eco di un gesto semplice e allo stesso tempo potentissimo.
Nel ‘79, Oriana Fallaci intervistò il dittatore.
Per poter compiere tale impresa, fu costretta a un matrimonio temporaneo con il suo interprete. Infatti, per poter parlare con l’ayatollah, doveva indossare obbligatoriamente il chador. Mentre si stava cambiando per metterselo, nella stanza era presente il suo interprete e un mullah (ovvero un curatore di teologia musulmana) vide la scena e la denunciò subito.
Secondo la Shari’a (traducibile in maniera molto sintetica come “legge islamica”, quindi l’insieme delle regole religiose che governano il popolo), un uomo che si trova in una stanza da solo con una donna che non è sua moglie pecca di adulterio, punibile con la morte. Ecco il motivo per cui la Fallaci e il suo interprete furono costretti a un matrimonio “a scadenza”.
Una volta al cospetto di Khomeyni, Oriana Fallaci capì che non sarebbe stata impresa facile aprire un dialogo con quell’uomo, tanto carismatico e potente quanto terribile: l’uomo incaricato dallo stesso per tradurre le domande della giornalista, non eseguiva il suo compito e anzi, poneva tutt’altro tipo di quesiti, per boicottare l’intervista.
Solo quando la Fallaci si rivolse direttamente al dittatore, parlando in italiano, inglese e francese, la vera intervista ebbe finalmente inizio, in uno scontro estremamente arduo, una battaglia tra libertà e dittatura, tra Occidente e Oriente.
E mentre Khomeyni stava per andarsene, ormai stanco e stufo di rispondere con una calma imperturbabile alle domande della Fallaci, lei lo punse sul vivo: “Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo. La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non ci si può muovere, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador?”
Fu solo in quel momento che lui ebbe una reazione vera e propria: “Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene’.
Al suono di queste parole, tutti gli uomini presenti nella stanza si misero a ridere.
E fu in quel preciso momento che si levò un grido di rabbia, di vendetta nei confronti di tutti quegli atteggiamenti che la Fallaci aveva dovuto subire da quando aveva messo piede nel Paese in quanto donna, un “basta” che venne fuori da una semplice frase e da un semplice gesto: “Grazie, signor Khomeyni. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo.” E si levò il chador gettandolo ai piedi di Khomeyni.
Un gesto simile è avvenuto anche di recente, da parte della giornalista di origini iraniane Christiane Amanpour, la quale avrebbe dovuto intervistare il Presidente iraniano Ebrahim Raisi all’Assemblea Generale dell’ONU a New York: il Presidente le ha chiesto di indossare l’hijab, lei ha gentilmente rifiutato, ricordando che negli Stati Uniti non vi è alcuna regola che impone di indossare il velo.
Così, Ebrahim Raisi non si è presentato.
Ed è per questo che il popolo e soprattutto le donne stanno insorgendo adesso, non solo in Iran, ma nel mondo intero. Non solo le donne islamiche, ma anche le occidentali. Tutte che bruciano i veli per strada, tutte che si tagliano una ciocca di capelli in onore di Mahsa Amini, colpevole di aver mostrato, appunto, quella ciocca di capelli e brutalmente uccisa per questo.
Mahsa Amini non è stata il vero movente, è stata il fiammifero che ha fatto scoppiare un incendio in una foresta già prosciugata e secca.
Il velo fa parte della cultura islamica, questo è vero. Infatti, non so se lo sapete, esiste anche una moda legata al velo: colori e fantasie davvero variegati, portati con orgoglio dalle giovani che preferiscono indossarlo, tanto che hanno luogo delle vere e proprie sfilate che mettono in mostra i nuovi modelli di veli islamici.
È anche vero che la cultura islamica in sé è estremamente particolare, così come la storia iraniana, piena di contraddizioni, si può dire.
Ma non è cultura obbligare una donna a nascondersi sotto di esso, sembrando un goffo pipistrello nero, come aveva descritto Oriana Fallaci all’epoca.
Non è cultura costringere una donna alla castità fino al matrimonio.
Non è cultura sottomettere una donna ai voleri del padre, del fratello o del marito.
Non è cultura impedirle di avere una vita normale, di bere, di ballare, di ascoltare la musica, di istruirsi… sostanzialmente, di scegliere.
Non è il velo il problema, ma l’imposizione che vi è dietro, usata come leva per il controllo sociale da parte del regime.
Ogni donna deve essere libera di decidere se indossarlo o meno.
E lo stesso discorso vale con le restrizioni vigenti in alcuni Paesi europei: per esempio, nel 2004, in Francia, è stata varata una legge che vieta l’esibizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici. Ergo, niente velo per le studentesse islamiche. Eppure, alcune si sono giustamente lamentate, perché desiderose di indossarlo, in onore della loro cultura e delle loro tradizioni.
Lo slogan che viene portato in strada a mo’ di bandiera francese nel quadro “La libertà che guida il popolo” di Eugène Delacroix, è “Donna, Vita, Libertà”. Perché è di questo che si tratta: della vita e della libertà delle donne.
Perché come diceva la celebre stilista Coco Chanel (1883 – 1971): “Una donna dovrebbe essere due cose: chi e cosa vuole.”
E come diceva anche Charlotte Brontë, famosa scrittrice britannica (1816 – 1855), autrice di “Cime tempestose”: “Non sono un uccello; e non c’è rete che possa intrappolarmi: sono una creatura umana libera, con una libera volontà.”