(ATTENZIONE: In questo articolo sono presenti immagini che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni lettori.)
Stanchi dei soliti viaggi “noiosi”?
Stanchi delle solite visite guidate?
Stanchi di provare il brivido lungo la schiena solo per l’idea di perdere l’aereo?
Se avete risposto di sì a queste tre domande, vuol dire che siete in cerca di quello che si definisce Turismo Estremo.
Ovviamente è di default che ogni tipo di viaggio sia un’avventura o una scoperta, capace di donare eccitazione e grandi emozioni a prescindere.
Ma c’è chi, effettivamente, cerca sempre qualcosa di più adrenalinico.
La tragedia del sommergibile Titan avvenuta a luglio dell’anno corrente 2023, purtroppo, è un chiaro esempio di turismo estremo, termine con cui si designa una tipologia di viaggi effettuati in luoghi pericolosi, sia dal punto di vista naturalistico (come miniere, giungle, deserti od oceani, per fare alcuni esempi), che dal punto di vista storico (per dirne una, città abbandonate a causa di un disastro). La visita di queste location può comportare, inoltre, anche la pratica di sport estremi (rafting, immersioni in apnea, tute alari per volare nel cielo e via dicendo).
E non è tutto. Pensate che i viaggi estremi si fermino solo alla Terra?
La Virgin Galactic, compagnia creata dal magnate Richard Branson, il giorno 10 agosto 2023, ha dato il via dai viaggi spaziali!
Ebbene sì, per la modica cifra di 450 mila dollari, l’aereo spaziale VSS Unity ha portato in orbita sei turisti, di cui tre civili. Tra l’altro, questo volo è stata la missione con più donne a bordo contemporaneamente.
Questo viaggio, soprannominato Galacitc 02, sarà effettuabile una volta al mese, come ha dichiarato Branson, poiché i dati raccolti fanno intuire che ci sia una concreta possibilità di spedizione nello spazio suborbitale con questa frequenza (cliccando QUI potete accedere all’articolo contenente il video dell’impresa). In effetti, il prossimo volo sarebbe previsto proprio questo settembre, quindi aspettiamo nuovi aggiornamenti.
Eppure, questa non è la prima volta che dei civili varcano le soglie della nostra atmosfera: il 31 marzo 2022, la navicella New Shepard della Blue Origin, compagnia fondata da Jeff Bezos (per gli amici, il signor Amazon), effettuava il suo quarto viaggio suborbitale con sei “comuni mortali” a bordo, a un’altezza da terra di circa 106 km.
La differenza tra la Virgin Galactic e la Blue Origin si può riscontrare nell’altitudine raggiunta dai rispettivi mezzi: nel primo caso si sfrutta un vettore con una capsula superiore che porta effettivamente nello spazio, oltre i 100 km; nel secondo, invece, viene utilizzato uno spazioplano capace di raggiungere gli 80 km di altitudine… beh, la New Shepard ha toccato i 106…
In ogni caso, la quota raggiunta non è ufficialmente lo Spazio, ma siccome si parla di altezze davvero importanti, l’area di arrivo dopo il lancio viene considerata come tale.
Dicevo, la triste vicenda del Titan e la sensazionale missione spaziale, mi hanno portata a scoprire altri viaggi estremi.
Complice il fatto che anche io ho avuto modo, nel corso dei miei giri intorno al mondo, di effettuare attività considerabili, forse, come estreme. In primis, la mia immersione con la shark cage alle Hawaii, a 11 miglia dalla costa di Honolulu, alla ricerca del King dell’Oceano, il grande squalo bianco, dove ero circondata da tigre e longimani lunghi tre metri (uno di questi ha pure tentato di papparsi la Go Pro di un turista presente nella gabbia… Non commenterò l’idea di allungare una mano fuori per fare riprese ravvicinate senza essere dei biologi o documentaristi esperti, perché si commenta da sola).
Ricordo in maniera estremamente vivida l’emozione e l’adrenalina da me provate mentre aspettavo con impazienza l’imbarcazione che ci avrebbe condotti al punto designato, al mattino prestissimo, ancora prima dell’alba.
Ricordo la magnificenza del sole che faceva capolino all’orizzonte, spandendo i suoi raggi sulle acque dell’Oceano Pacifico, che si apriva invitante davanti a me e sulle montagne verde smeraldo, le stesse di “Jurassic Park”, che contrastavano sulla costa.
Ricordo l’acqua fredda mentre mi calavo nella gabbia, intanto che i barcaioli pasturavano per attirare i big boss del mare.
Ricordo che sotto di me sembrava si spalancassero gli abissi oceanici, un blu profondo tanto affascinante quanto quasi paralizzante.
E poi, dal fondo, da quel blu intenso e misterioso, ho iniziato a intravedere delle ombre muoversi, sembravano quasi degli aeroplani che spiccavano il volo.
All’inizio mi pareva si muovessero lentissime, così lontane che pensavo si trattasse forse di una serie di riflessi dei primi raggi solari del mattino.
Poi ho constatato che non si muovevano affatto lentamente, anzi, erano veloci, molto veloci.
In mezzo minuto, circa venti squali sono arrivati in superficie, affamati e incuriositi da tutto quel movimento che stavamo facendo.
Io ero affascinata, non riuscivo a staccare gli occhi da loro, nuotavano così vicini alla gabbia che avrei potuto accarezzarli uno a uno (idea veramente terribile, non fatelo!).
Nella mia testa, in principio, continuavo a ripetermi: “Ho tolto i bracciali, niente riflessi luminosi che possano attirarli, non devo urinare, non devo sanguinare, non devo fare movimenti bruschi o agitare troppo l’acqua.”
“Ah, signori!” ci aveva esclamato uno dei barcaioli mentre eravamo in acqua “Vi ricordo di fare attenzione agli squali Mako, perché siete in una gabbia posizionata in prossimità della superficie e quindi aperta in alto. I Mako, con un moto ondoso, tendono a saltare dentro le gabbie e quindi potrebbe succedere.”
Ricordo il panico nelle facce degli altri turisti a bordo dell’imbarcazione, mentre aspettavano il loro turno per entrare nella shark cage e godere di quello spettacolo. Ma alcuni impauriti hanno dato forfait quasi immediatamente.
Sarei rimasta lì dentro tutto il giorno, la sensazione che provavo di pericolo, mista a stupore e meraviglia, era semplicemente fantastica.
Un’altra mia esperienza è stata nuotare in un cenote in Messico, nella Penisola dello Yucatàn, molto conosciuta, ma questo è un cenote particolare. Lo chiamavano “Il cenote del giaguaro”, perché i giaguari della zona si abbeverano spesso a quella fonte di acqua dolce (i cenote sono dei pozzi naturali in cui è presente acqua dolce di fiumi e laghi sotterranei) e quindi dovevamo fare attenzione, perché questo nello specifico è situato all’interno della giungla.
Io lo avrei chiamato anche “cenote dei pipistrelli”, perché mentre ci immergevamo nell’oscurità, con maschera, boccaglio e torce, perché il buio è assoluto, superammo una piccola grotta dove un centinaio di pipistrelli stavano sonnecchiando beati e la guida ci intimò di fare silenzio, perché se si fossero spaventati, avrebbero iniziato a vorticare pericolosamente sopra le nostre teste.
L’acqua era fredda, ma nonostante ciò non avevo alcuna muta addosso.
Di colpo, ci ritrovammo in una caverna più grande, con solo un’intercapedine nel soffitto a stagliare un minimo di luce, non abbastanza, però, da permetterci di spegnere le torce.
“Attenti a dove mettete i piedi.”, aveva detto la guida in spagnolo. E non scherzava affatto: “Bionda, laggiù, non fare neanche un passo verso destra, vieni a sinistra.”
“Perché? Cosa c’è?” gli chiesi io in spagnolo.
“Chinati e guarda con la maschera, ma fai attenzione.”
Pensavo di trovarmi davanti al muso una bestiaccia di qualche tipo.
Invece trovai qualcosa di peggio: un cunicolo largo un metro, più nero di un buco nero.
“Dove porta?”
“Prima o poi arriverà all’oceano, ma non si sa quanto sia lungo e profondo quel tratto. Qua non c’è corrente, a voi sembra che cadere in un buco come quello non sia chissà che cosa, che possiate benissimo uscirne proprio perché in questa camera, con l’acqua alla vita, non c’è, come ho già detto, corrente. Ma se mettete anche solo un piede lì dentro, non vi recupero più. Verrete trascinati via subito.”
Osservai ancora quella piccola voragine per qualche secondo, puntando la torcia dritta dritta nell’oscurità totale.
Niente. Non c’era niente. Era terribile e affascinante. Mi allontanai lentamente, come ci si allontana da un animale feroce in agguato.
E che dire del banana boat che ho fatto in pieno Oceano Indiano, in Indonesia?
Dove le risate per essere cascati in acqua sono state sostituite dal silenzio, quando mi sono accorta che l’acqua attorno a me era nera talmente era profonda.
“Oceano Indiano, ergo, l’Alcatraz della fauna ittica, dove ci sono gli ‘animalacci’ più pericolosi al mondo. Se arriva uno squalo tigre a mordermi le chiappe, qua manco me ne accorgo, arriva e basta. E io ho un salvagente catarinfrangente addosso. Uomo della barca, muoviti a tornare indietro e a venirmi a prendere!”, pensavo tra me e me mentre stavo il più ferma possibile, a mollo tra due isole, con non so quante centinaia o anche migliaia di metri d’acqua sotto di me.
Ma comunque, tralasciando ciò che ho fatto io fino a ora, torniamo ai viaggi estremi in generale.
Innanzitutto mi sono resa conto che forse alcuni di voi non conoscono la vicenda del Titan da me sopracitata, quindi vi rinfresco un attimo la memoria, prima di elencarvi i tipi di turismo adrenalinico esistenti.
Il Titan era un sommergibile, come dicevo, progettato e gestito dalla OceanGate, società privata statunitense, lungo 6,7 m, largo 2,8 m e alto 2,5 m, con una capacità massima di cinque persone.
Per quanto il suo scafo fosse sperimentale poiché realizzato in fibra di carbonio (la fibra di carbonio fu prodotta da Abbott nel 1950, carbonizzando il rayon a una temperatura di circa 1000 gradi, ottenendo questo materiale molto resistente, ma poco usato negli scafi), il Titan poteva raggiungere una profondità massima di 4000 m e trovò impiego non solo per la realizzazione di film o per testare hardware e software a profondità elevate, ma anche per il turismo estremo. Non un viaggio qualsiasi: un viaggio alla scoperta del relitto del Titanic, la nave “inaffondabile” (purtroppo, le ultime parole famose), affondata, appunto, nel 1912, durante il suo viaggio inaugurale, dopo l’impatto fatale contro un iceberg.
Comandato da un gamepad modificato (ergo, un controller per videogiochi), il sommergibile comunicava con la superficie tramite la costellazione satellitare Starlink di Elon Musk (tra l’altro passata sopra l’Italia alle ore 21 di mercoledì 16 agosto 2023, visibile a occhio nudo nel cielo notturno da tutta la nazione, con lo scopo di creare una rete globale a banda larga e da me fotografata).
Il giorno 18 luglio 2023, mentre cinque turisti erano a bordo del Titan per un’escursione verso il Titanic (un biglietto costava ben 230 mila dollari), si perse ogni sorta di comunicazione.
Vani furono i tentativi di ricerca e recupero nei giorni successivi. Non solo finì l’ossigeno nella camera del piccolo sottomarino, ma vennero rinvenuti dei detriti che confermarono l’ipotesi di implosione del Titan, dovuta, a detta dell’ammiraglio John Mauger durante una conferenza stampa, a “un catastrofico danno alla camera di pressione”.
Non è dato sapere se verrà realizzato un “nuovo Titan”, ma forse possiamo presumere che questa tragedia farebbe desistere chiunque nel compiere ancora un viaggio del genere.
Altro itinerario pericoloso da menzionare, abbastanza conosciuto ormai, è l’escursione alla città abbandonata di Prypjat, nei pressi di Chernobyl.
Qualcuno di voi sarà già a conoscenza di questo tour “estremamente estremo” (che gran gioco di parole), ma come tutti noi sappiamo, questa città ormai fantasma, una volta era popolata da 50 mila abitanti, con strutture moderne per l’epoca, così tanto curata anche dal punto di vista estetico da essere soprannominata “la città dei fiori”, proprio per la grande presenza di graziose aiuole per le strade. Venne abbandonata subito dopo la catastrofe, in fretta e furia e molti effetti personali vennero lasciati sul posto dagli abitanti.
Si trova nella cosiddetta zona di alienazione, ovvero quella porzione di territorio compresa in un raggio di 30 km a partire dalla centrale dove avvenne il più grande disastro nucleare della storia (26 aprile 1986).
Prypjat è situata giusto a 2 km dalla centrale di Chernobyl e non è assolutamente possibile visitarla per conto proprio, bisogna appoggiarsi a una delle guide esperte presenti sul posto, incaricate ufficialmente di condurvi in questo luogo a dir poco spettrale.
Si parte la mattina presto e si entra nella Red Zone (Zona Rossa), per vedere prima il sarcofago costruito per coprire il reattore nucleare n.4, in modo da limitare le contaminazioni radioattive nell’area.
Successivamente, ci si addentra nella Red Forest (Foresta Rossa), dove alcune specie di animali sono mutate autonomamente proprio per adattarsi alle radiazioni (ho scritto anche un articolo in merito, che potete leggere cliccando QUI).
Alcuni punti di questa foresta sono ancora troppo radioattivi per sostarci, quindi le guide usufruiscono di contatori Geiger per controllare la radioattività dei dintorni e capire quanto tempo si può stare in un determinato punto senza conseguenze.
Tuttavia, nella Red Forest, i contatori Geiger (rivelatori di radiazioni nucleari) suonano parecchio, quindi, in generale, non si può rimanere per più di pochi minuti.
E poi, si arriva a Prypjat, dove il silenzio diventa pesante quanto l’uranio impoverito (paragone poco felice, ma che viene spontaneo anche perché scientificamente l’uranio impoverito è estremamente denso, circa 1,7 volte più del piombo).
Gli edifici abbandonati, alcuni diroccati, ricordano degli scheletri o vecchie carcasse. Quelle finestre sfondate, quei portoni aperti appaiono come centinaia di facce urlanti… no, forse intrappolate in una perenne espressione di sorpresa, come sbigottite dall’abbandono improvviso.
Ogni stabile, la ruota panoramica, il parco giochi mai aperto (doveva essere inaugurato cinque giorni dopo il disastro nucleare), sembrano tutti sussurrare: “Noi siamo ancora qui. Siamo testimoni della negligenza umana.”, perché è stata la negligenza la vera colpevole dell’incidente di Chernobyl.
Le guide, durante il giro che dura circa un paio d’ore, vi narreranno meticolosamente e dettagliatamente la storia del luogo, spiegandovi la funzione di ogni edificio, dalla scuola, alla palestra, ai supermercati e via dicendo.
La quarta tappa prevede la visita alla stazione dei vigili del fuoco, quei coraggiosi eroi morti o ammalatisi subito dopo essere intervenuti per contenere i danni.
Si prosegue poi con l’osservazione di una delle più alte antenne del globo, la Duga-3, il cui scopo era quello di intercettare i missili e la cui posizione, un tempo, era nota solo alla NATO.
Visitare questi luoghi lascia sicuramente senza parole, con un senso di impotenza, forse anche di colpa. Tutto, intorno a voi, vi farà sentire la paura, il terrore, la confusione provata dai poveri abitanti in quei momenti di panico. Non si faticherà a immaginare migliaia di famiglie in un esodo obbligato verso la speranza e verso un’ipotetica salvezza, perché le radiazioni possono colpire anche anni dopo e non sempre ci si salva.
Insomma, per chi è appassionato, una gita nella Red Zone di Chernobyl risulta “invitante”. Rischiosa, sì, ma con una grande importanza antropica e storica.
Se si vuole optare invece per qualcosa di più spettacolare, ma in senso positivo e naturalistico, si può scegliere un bel viaggio in Antartide! Pensavate che l’Alaska o la Groenlandia fossero estreme? Beh c’è anche il Polo Sud che si contende un primato in fatto di vacanze “ai confini della realtà”.
Ci sono alcune compagnie (come la White Desert, WeRoad o Jacada Travel) che offrono, a prezzi non proprio popolari, delle escursioni a pieno contatto con la Natura nella terra del freddo, dei ghiacci e dei pinguini, che ricordo a tutti esistono solo al Polo Sud e non al Polo Nord, perché lassù ci sono gli orsi polari. Anche se quattro di loro hanno dirottato una nave in Madagascar e poi hanno fatto precipitare un aereo in Africa… ma questa è un’altra storia.*
I biglietti superano i 65 mila dollari a seconda dell’itinerario, anche se, sempre a seconda della compagnia prescelta, si possono trovare prezzi anche molto più bassi.
Per esempio, se si decide di prenotare tramite White Desert, si può soggiornare all’interno degli Sky Pods, che sono delle strutture ispirate allo spazio e sembrano uscite da un film di fantascienza: camere da letto costruite in fibra di vetro, che si affacciano, con una visione quasi totale, sul bianco paesaggio chiamato Echo Camp (Echo), praticamente un campeggio di lusso in pieno stile glamping (nuovo termine modaiolo che nasce dalla fusione delle parole inglesi “camping” e “glamour”, un “campeggio di lusso”).
E niente paura per quanto riguarda l’ambiente: queste costruzioni sono smontabili, in modo tale da far sembrare che non ci sia mai passato nessuno.
I vari programmi comprendono gite nella neve con le racchette (no, non quelle da tennis), un safari nella neve in mezzo agli adorabili pinguini, l’esplorazione di grotte di ghiaccio e tunnel sotterranei e tante altre attività decisamente wild e fresche.
E se si è scalatori esperti, amanti del brivido, della neve e della Natura incontaminata, perché non optare per la scalata dell’Everest?
Mi rendo conto di aver appena citato il Big One dei viaggi estremi, non ho certo nominato una passeggiata di salute sulle Dolomiti, comunque sempre degne di rispetto.
Scalare la vetta più alta del mondo (8840 m di altezza, ufficializzati per la prima volta nel 1856) è un’impresa quantomeno titanica, eppure non così di nicchia come si potrebbe pensare. Tra l’altro, sapevate che l’Everest, tecnicamente, non sarebbe affatto la montagna più alta del mondo? Infatti, essa è considerata la più alta solo perché situata al livello del mare. Se si va a constatare anche sotto quel livello, la vera montagna più alta del globo sarebbe il Mauna Kea delle Hawaii, alto ben 10.210 m. Ma ufficialmente, quest’ultima, viene classificata come una cima di “soli” 4205 m, perché si tratta della porzione visibile s.l.m.
Inoltre, al contrario di quanto si possa pensare, la cima dell’Everest non diminuisce a causa dell’erosione naturale, anzi aumenta di 4 mm all’anno, ergo 400 cm ogni secolo, in quanto la catena dell’Himalaya si è formata grazie alla collisione della placca tettonica Indiana e della placca tettonica eurasiatica, ancora oggi in movimento.
Come dicevo sopra, la scalata verso la vetta più celebre al mondo è un’esperienza più “turistica” di quanto si creda. Difatti, la prima scalata completa (effettuata nel maggio del 1953 dal neozelandese Edmund Hillary e dal nepalese Tenzing Norgay), ha segnato l’inizio della corsa alla vetta da parte di ben 4000 persone, che l’hanno raggiunta anche più volte, per un totale di 7000 pedate umane sulla cima.
Dire che arrampicarsi su questo “ginormico sasso” (una semicit. a “Mostri contro alieni”, film DreamWorks datato 2009) sia rischioso è riduttivo: non solo le temperature glaciali arrivano a -40 gradi centigradi (-60 se c’è vento), ma oltre i 7600 m si entra nella cosiddetta “zona della morte”. E perché, vi domanderete voi? È la dimora dello yeti? Forse, ma il vero motivo è la carenza di ossigeno (non) presente a questa altitudine. I primi due scalatori poterono godersi il panorama sulla cima dell’Everest giusto per 15 minuti, prima di essere costretti a scendere per una vera boccata d’aria.
Posso certo immaginare la soddisfazione, l’eccitazione, l’adrenalina e il grande senso di potenza che ti possiedono quando finalmente si arriva lassù… Ma cavolo, 15 minuti di gloria sono pochi, se consideriamo le 10 settimane che ci vogliono per portare a termine quest’avventura, mannaggia ai polmoni!
Molti scalatori, per queste ragioni, trovarono la morte durante l’impresa, inclusi i primissimi due in assoluto, saliti sulla montagna nel 1924: George Mallory e Andrew Irvine perirono cercando di arrivare fin sulla vetta, sembra senza riuscirci, dato che venne ritrovato solo il corpo del secondo scalatore a un’altezza di ben 8157 m. A causa delle temperature così basse, oltretutto, i corpi si conservano benissimo, quindi non capita di rado che certi scalatori si imbattano nel cadavere di qualche sfortunato, morto a causa di una valanga, di una caduta o dell’assideramento.
Tristemente nota è, infatti, la salma di Green Boots, a circa 8200 m di altitudine, un uomo morto nel tentativo di arrampicarsi sulla vetta e di cui non si conosce ancora l’identità precisa, anche se si sospetta si tratti di Tsewang Palijor, indiano scomparso sull’Everest nel 1996.
Il soprannome Green Boots deriva dagli scarponi verdi chiaramente visibili nella neve, tanto che negli anni è diventato anche un chiaro punto di riferimento e orientamento per gli escursionisti che si avventurano in questo luogo.
Il corpo, tuttavia, è ormai sparito. Probabilmente è stato rimosso da terzi o sepolto da qualche parte, non si sa.
Inoltre, Green Boots sarebbe stato il “responsabile” della morte di un escursionista nel 2006, David Sharp: l’uomo era in grave stato di ipotermia quando cercò riparo nella piccola grotta dove era presente il cadavere, e molte persone non riuscendo a vedere chiaramente, gli sarebbero passate accanto scambiandolo per Green Boots. Per questa ragione, nessuno gli prestò soccorso e l’uomo morì di freddo.
Comunque, non si tratta della prima persona a ricevere un soprannome per essere riconosciuta: sull’Everest si stima la presenza di ben 200 cadaveri, tra cui figura anche Sleeping Beauty, ovvero Francys Arsentiev, donna deceduta durante la discesa verso valle nel 1998, dopo essere riuscita nella fatidica impresa.
O ancora, esiste la cosiddetta Rainbow Valley, una vallata costellata di corpi con ancora indosso le tute da neve di decine di colorazioni differenti.
Noi italiani, inoltre, possiamo essere orgogliosi, perché fu proprio l’alpinista italiano Reinhold Messner (originario di Bressanone, nato nel 1944 e ancora in vita) a essere il primo scalatore in solitaria e senza bombole d’ossigeno a raggiungere la cima dell’Everest. Tra l’altro, Messner ha scalato l’Everest dopo aver perso il fratello durante la discesa dal Nanga Parbat (conosciuto anche come Diamir, una cima himalyana alta 8126 m), nonché sette dita dei piedi, che ha dovuto amputare a causa del congelamento.
Come avrete evinto dai numeri, dunque, la montagna himalyana, denominata “Dea del cielo” dai nepalesi e “Dea Madre dell’Universo” dai tibetani, è piuttosto “affollata”. Anche perché per fare un viaggio del genere non serve neanche chissà quale cifra astronomica, giusto 30 mila dollari.
Quindi, cosa aspettate? Piccozze alla mano, signori!
Oppure, esiste un tipo di turismo ancora più estremo, dove letteralmente si rischia la vita. Parlo del turismo di guerra. Esistono due rami legati a questo modo di fare viaggio: il primo, certamente il più sicuro, è ripercorrere le tappe di vari conflitti nei posti in cui essi hanno avuto luogo (come nel caso del Friuli Venezia Giulia, regione in cui le forze armate italiane si sono battute durante il primo conflitto mondiale); il secondo, quello che credo mai vi sareste aspettati, è visitare le aree di conflitto durante il conflitto stesso.
Le zone prese d’assalto dai turisti sono “a basso rischio” (ma io mi chiedo, in tempo di guerra, quando mai una zona può essere davvero a basso rischio?! Non c’è di certo un cartello a limitare l’area dall’arrivo di proiettili o bombe!), ma comunque i viaggiatori vengono forniti di giubbotti antiproiettile, caschetti et similia, dopo aver firmato un documento in cui dichiarano che l’agenzia organizzatrice del tour non si prende alcuna responsabilità per ciò che potrebbe accadere sul campo.
Tra i tour più famosi, sicuramente sono da citare quello realizzato dalla Megalopolis Kurort nel Donbass, dove attualmente si sta attuando lo scontro tra Russia e Ucraina.
Oppure, la War Zone Tour organizza, fin dal 1993, gite guidate in Iran o Iraq, comprendendo anche capitali del femminicidio come Ciudad Juarez, situata in Messico.
Insomma, alcune persone sono così tanto alla ricerca dell’adrenalina e del brivido che sono disposte a passeggiare letteralmente su campi minati, rischiando di prendersi in pieno una pallottola o peggio.
Naturalmente, non mancano le proteste nei confronti di questi itinerari non solo dal punto di vista, ovviamente, della sicurezza, ma soprattutto dal punto di vista etico. È giusto lucrare sopra un conflitto in questa maniera così frivola?
Le agenzie che si occupano di tali tour si difendono dichiarando che la loro è semplicemente un’offerta alla domanda dei consumatori, che richiedono specificatamente questo tipo di viaggi.
Effettivamente, io non posso fare altro che schierarmi verso lo scetticismo, in quanto reputo a dir poco irrispettosa l’idea di visitare una zona di guerra durante il combattimento stesso, come se fosse una visita di piacere. Non trovo affatto sensazionale il giocarsi la pelle guadagnando su tragedie, famiglie straziate e sulla morte di centinaia se non migliaia di persone.
Un conto è ripercorrere la storia di una battaglia già avvenuta, proprio per imparare da essa e per cercare di non commettere gli stessi errori che hanno portato a tali catastrofi.
Ma considerare un viaggio estremo nel Donbass, in Iran o in Iraq alla pari di una gita scolastica o di una scalata sull’Everest, mi permetto di dirlo, lo trovo tutt’altro che piacevole.
Naturalmente queste che ho elencato sono le esperienze più estreme in assoluto, ma anche nel “piccolo”, per così dire, non mancano certo escursioni al limite del brivido.
Come per esempio fare trekking sull’Isola dei Serpenti, in Brasile (Ilha da Queimada Grande), dove si possono trovare fino a 4000 serpenti velenosi su una superficie di circa 430 mila metri quadrati.
Praticamente si rischia la morte a ogni passo perché una qualsiasi bestia strisciante ti può mordere.
E sempre parlando di trekking, non posso non menzionare il deserto del Sahara con la sua Marathon Des Sables, una vera e propria traversata del deserto a piedi, per un totale di 240 km, con temperature che toccano picchi di 60 gradi centigradi di giorno e un’escursione termica ai limiti della sopportazione nelle ore notturne (si arriva persino allo 0).
Se siete amanti del caldo, oltre al Sahara, si può fare un salto alla cosiddetta Porta dell’Inferno. Per quanto il nome faccia pensare a una “comparsata” di Lucifero durante la vacanza, il Diavolo non c’entra niente: si tratta di un immenso giacimento di gas situato in Turkmenistan, nei pressi di Derweze. Nel 1971, i sovietici iniziarono delle operazioni di scavo, alla ricerca del petrolio, ma l’unico risultato fu un crollo disastroso in una caverna sotterranea colma di gas naturali. Venne deciso di dare fuoco al cratere per evitare la fuoriuscita di gas velenosi. La quantità di gas presenti in quella zona è così elevata che il fuoco è ancora lì e brucia dal 1971.
Se invece preferite il freddo al caldo, posso consigliarvi una bella gita in Siberia, più precisamente a Ojmjakon, conosciuto come “il paese più freddo del mondo”: 800 abitanti che affrontano temperature letteralmente glaciali, perché sono stati registrati addirittura -67 gradi. In effetti, questo luogo è così freddo, che se si gettasse dell’acqua in aria, questa si congelerebbe all’istante! Comunque, il nome del posto è quantomeno singolare, quasi una presa per i fondelli: infatti, tradotto in italiano, il nominativo del paese è “acqua non congelata”, in quanto nelle vicinanze è stata riscontrata la presenza di una sorgente calda. A dir poco ironico.
Oppure, sempre in fatto di arrampicate, esiste il cosiddetto “Caminito del Rey” (“Il piccolo sentiero del Re”, in lingua nostrana). Beh, di certo il nome non descrive appieno il luogo, poiché questo tratto situato nel paesino di El Chorro, vicino a Malaga (Spagna) è stato classificato come “il sentiero più pericoloso al mondo”: 8 km di percorso, superando passerelle costruite a oltre 100 m di altezza, con alcuni punti dove ci si arrampica sulla roccia. Un panorama mozzafiato, godibile solo se si prenota online l’escursione sul sito apposito.
Anche se questi primati in fatto di pericolosità e sensazionalità non sono solo del Caminito del Rey, ma anche della Death Road, in Bolivia, un nome una garanzia: anche questa considerata dai più come la strada più pericolosa al mondo, poiché situata a ben 3000 m di altezza, con gole profonde fino a 600 m, senza alcun tipo di protezione, parapetto, guard rail, neanche una corda che delimiti la via percorribile da morte certa. Ah, naturalmente, dato il clima della Bolivia, si è circondati da chilometri di giungla, frequentemente bagnata dalla pioggia torrenziale, quindi la probabilità di rischiare la vita a causa di una frana è un po’ come la massima temperatura del Sahara, cioè altissima. E pensare che in questo punto ci passano anche furgoncini e automobili!
Anche andare in Bhutan è un’esperienza surreale, poiché il rischio di perdersi tra una vallata e l’altra, nel tentativo di raggiungere a piedi i centri abitati è decisamente concreto. Inoltre, per visitarlo, bisogna ottenere i permessi governativi e prenotare con largo anticipo, minimo un mese.
Oppure, in fatto di viaggi estremi, esistono anche luoghi non proprio pericolosi, quanto invece difficili da raggiungere o semi dimenticati.
Un esempio può essere il Darien Gap, un punto specifico della Panamericana (un sistema di strade che collega tutte le Americhe da nord a sud e lungo all’incirca 30 mila km), più precisamente tra Panama e Colombia.
La Natura incontaminata è uno spettacolo, ma nell’attraversare questo confine bisogna fare molta attenzione ai trafficanti di droga e agli uomini armati appartenenti alla FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Marxiste della Colombia). Insomma, gentiluomini.
Questo mi riporta al mio viaggio in Messico, dove ogni tot metri, per le strade, semi nascoste dagli alberi della giungla, erano dislocate una serie di torrette di avvistamento, “popolate” da uomini imbraccianti dei fucili.
Oppure, mi fa tornare alla mente anche quella volta in cui decisi di attraversare il deserto per raggiungere la Valle dei Re, partendo da Marsa Alam, dove ho dovuto superare diversi checkpoint con i mitra spianati. Che viaggio rilassante!
Un altro punto geografico difficile da raggiungere a causa della desolata tundra circostante, è quello dominato dai Man’pupunër, che tradotto dal russo significa “I Sette Giganti”.
Ed effettivamente, nel trovarseli di fronte, in quella landa selvaggia, si ha l’impressione di essere finiti del videogioco cult capolavoro “Shadow of the Colossus”.
Si tratta di sette singolari monoliti in pietra, formatisi naturalmente, di altezza compresa tra i 30 e i 40 m.
La particolarità di questi massi è la loro posizione: si trovano isolati da qualsiasi cosa, in cima a un colle della catena montuosa del Timani, nei pressi dei Monti Urali. Come se una qualche divinità si fosse divertita a giocare a scacchi con un’altra divinità e si fosse dimenticata i pezzi sulla montagna.
Invece, un luogo davvero unico al mondo sia per quanto riguarda la flora e la fauna, che per quanto riguarda il discorso politico e religioso, è sicuramente l’Isola di Socotra, nello Yemen. Collocata in pieno Oceano Indiano, a 350 km dalla costa yemenita e a 300 km da quella somala, l’Isola di Socotra presenta delle specie animali e vegetali uniche al mondo, tra cui il celebre Albero di Sangue di Drago.
Per quanto sia ovvio un riferimento a “Game of Thrones” (o alla Melevisione, se vi ricordate la puntata in cui la strega e Lupo Lucio si sono dannati per raccogliere il sangue di drago), l’origine del nome dato a questa pianta deriva dalla leggenda secondo cui l’eroe Ercole, in una delle sue dodici fatiche, uccise il grande serpente Ladone, una creatura con cento teste incaricata dalla dea Era di proteggere l’albero dei pomi d’oro nel giardino delle Esperidi, delle ninfe che vivevano in questo giardino e che avevano la medesima missione del mostruoso animale.
Quando Ercole scoccò la freccia che uccise Ladone, il sangue che zampillò fuori dal corpo del serpentone generò l’Albero Sangue di Drago.
Effettivamente, i pomi d’oro si può dire siano esistiti veramente e che continuino ancora adesso a essere una merce davvero pregiata: infatti, il miele prodotto dal Sangue di Drago è uno dei mieli più costosi al mondo (nel mio articolo sulla Biodiversità, che potete leggere cliccando QUI, ho dedicato un’intera sezione ai mieli più pregiati, date pure un’occhiata).
E poi non dimentichiamoci dei vari safari in Kenya, in Chad, dei cosiddetti spartan travel, letteralmente “viaggi spartani” in inglese, ovvero di tutti quegli itinerari fatti con zaino in spalla, tende da campeggio, completamente all’avventura, senza hotel o comfort di alcun genere. Un esempio può essere una bella gita nel deserto di Atacama, in Cile, dove è possibile ammirare i geyser di El Tatio, presenti a sud di San Pedro de Atacama.
Ma di questi e di tutte le experience che si possono fare nel mondo, ve ne parlerò più in dettaglio in un prossimo articolo, dato che esistono così tanti tipi di viaggio estremo che è impossibile elencarli tutti in unico pezzo.
Esperienze che credo fermamente debbano essere vissute, ma non in maniera semplicemente turistica.
Viaggiare significa ascoltare un luogo, viverlo, sentirlo sulla pelle, inspirare la sua aria e capire che è un’aria diversa da quella di casa propria, captare dei rumori che non sono i rumori di dove siamo nati e cresciuti.
Ogni posto nel mondo ha una storia da raccontare, solo che il turista la studia come si studia a memoria una lezione di storia per un’interrogazione, il viaggiatore la legge come se si stesse divorando il romanzo in cui essa è custodita.
Rischiate, Carpe Diem, cogliete l’attimo in tutte queste esperienze ai limiti del reale, scoprite altri modi di viaggiare, scoprite il mondo, perché come dice un proverbio africano: “Ciò che non hai mai visto lo trovi dove non sei mai stato.”
*La storia a cui mi riferivo parlando dei pinguini, è quella raccontata nella saga del film d’animazione cult “Madagascar”, prodotto dalla DreamWorks.