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Nella terra di Itzamana e Kukulcan

L’estate è ormai alle porte, ma scommetto che alcuni di voi non hanno ancora scelto dove passare le tanto bramate e sospirate ferie. In effetti, il mondo è grande e i luoghi da scoprire e godersi sono innumerevoli.

Con l’occasione, vorrei parlarvi di uno dei miei viaggi, nell’intento magari di ispirarvi. Stavo sfogliando alcune foto e mi sono imbattuta in quelle che ho scattato in Messico e mi sono rammentata, in particolar modo, della mia visita a uno dei meravigliosi siti archeologici meglio conservati e più importanti al mondo: la città di Chichén Itzá, culla dei segreti del popolo Maya.

Prima di addentrarmi nel racconto del mio viaggio, mettiamo in chiaro giusto un paio di dettagli sul Messico.

Innanzitutto, la denominazione ufficiale del Messico sarebbe Stati Uniti Messicani (Estados Unidos Mexicanos) ed è una repubblica federale presidenziale. Con la parola federale, si intende uno Stato composto dall’unione di due o più Stati, posti sotto lo stesso governo (pensate agli USA, per esempio). Nel caso del Messico, le entità federative, compresa la capitale Città del Messico, sono trentadue.

La lingua parlata ufficialmente, nel caso non si fosse capito, è lo spagnolo, ma sono compresi anche altri 68 idiomi nativi, tra cui il nahuatl (traducibile proprio come “messicano”), ovvero una lingua originaria del popolo azteco.

È il decimo Paese più popolato nel globo terracqueo, con i suoi 130 milioni di abitanti, per la maggioranza cattolici e meticci. Per quanto questo termine possa sembrare razzista, in realtà, con esso si identificano tutti quegli individui frutto di unioni tra i coloni europei e le popolazioni del luogo.

Dopo questa sinteticissima, ma comunque doverosa “carta d’identità” del Paese dei mariachi col sombrero, passiamo alle notizie interessanti.

Vi narrerò il mio soggiorno nella penisola dello Yucatán, il cui nome deriva, si dice, dal nahuatl “Yukatlán”, che significa “il luogo della ricchezza”, dividendolo in vari articoli e partendo, con questo pezzo, con la mia escursione a Chichén Itzá.

Faceva molto caldo, anche se il cielo non era particolarmente sereno quel giorno. Anzi, era in arrivo un temporale, con grandi nuvoloni neri all’orizzonte. Nonostante ciò, il mese di agosto, con le sue temperature, si faceva sentire. A causa della sua posizione a sud del Tropico del Cancro e circondata dalle acque tropicali, la penisola Maya ha due stagioni piovose tra maggio e ottobre e tra novembre e aprile, quindi, tra dicembre e febbraio sarebbe il periodo migliore, ma è anche quello con la maggiore affluenza di turisti da tutto il mondo. A settembre, sulle coste, c’è un’alta incidenza di uragani.

Ritornando al mio viaggio, avevo prenotato un resort a Tulum ed era stato organizzato un pullmino che avrebbe percorso un tragitto di circa un paio d’ore, lungo l’autostrada 109 per 152 chilometri, costeggiando dei tratti giungla, per arrivare poi in quello che, una volta, era uno dei cuori pulsanti dell’antica civiltà Maya: Chichén Itzá, che si erge su un’ampia aerea di 3 chilometri quadrati, tra Merida e Cancún.

Prima del mio arrivo, ricordo tanto verde. Verde, verde smeraldo ovunque. Il fogliame, la vegetazione che mi correvano accanto, mentre, nel mezzo della boscaglia, ancora all’inizio del viaggio, nella zona degli alberghi, potevo notare la presenza di diverse guardie armate, appostate all’erta con i fucili, per evitare incursioni criminali all’interno dei villaggi turistici. Sparpagliati nella giungla c’erano piccoli centri abitati, con costruzioni spesso semi diroccate o improvvisate con ciò che la Natura aveva da offrire. Ho questo ricordo vivido di una donna che camminava scalza lungo un sentiero, con indosso una canottiera rosa forse troppo stretta per lei e con in braccio quello che credo fosse suo figlio, completamente nudo, intento a mangiare una fetta di melone.

Mentre percorrevo queste stradine, che mai si sarebbe potuto dire fossero praticabili con un veicolo a quattro ruote, la guida stava esponendo cosa avremmo visto una volta arrivati sul posto.

Ciò che mi sorprese furono queste parole: “Voi pensate che i Maya si siano estinti, giusto? Pensate che sia un antico popolo che ha fatto il suo decorso e che poi sia scomparso a causa della colonizzazione massiccia? Non potete essere più in torto. I Maya esistono ancora, siamo vivi e siamo tanti. Lo so perché io sono un Maya.

E fu così che scoprii che questo popolo è ancora presente non solo in Messico, ma anche in Guatemala e altri Stati del sud America. Mantiene viva la propria tradizione, la propria lingua, i ragazzi maya parlano sia lo spagnolo che la loro lingua nativa. Persino il loro zodiaco è ancora in uso: per esempio, secondo il calendario Maya, io, Leone, sarei del segno del Pipistrello, un animale a loro sacro. Anzi, una vera e propria divinità: il Pipistrello rappresentava gli Inferi, la morte, il sacrificio e fungevano da messaggeri infernali per gli Dèi. La sua controparte diurna era il colibrì. Si dice che i nati sotto questo segno abbiano un udito così fine da poter percepire anche i pensieri degli altri.

L’antico popolo da noi studiato a scuola, nacque con tutta probabilità prima del 2000 a.C. e la loro storia viene suddivisa, principalmente, in tre periodi: il periodo preclassico, a cui risalgono le prime costruzioni e l’inizio dello sviluppo della loro civiltà; il periodo classico, datato tra 250 d.C. e il 900 d.C., circa, ovvero l’apice di questo popolo, con grandi edifici votivi e una cultura meravigliosamente ricca; il periodo postclassico, coincidente con il X secolo d.C., che segna il declino dei Maya.

Furono il primo popolo in tutta la Mesoamerica a creare una scrittura complessa, costituita da un sillabario di segni fonetici che rappresentavano le sillabe e da logogrammi (parole intere).

Mentre la guida ci spiegava ciò, il pullmino stava giungendo a destinazione. In una serie di rovine, erano stati installati alcuni shop per i turisti, c’erano gruppi di persone provenienti da ogni parte della Terra e le bandierine degli accompagnatori svolazzavano sulle teste dei presenti, per segnalare la loro posizione.

Un tuono in lontananza ci avvisò che il temporale era vicino. Neanche il tempo di elaborare questa informazione, che cominciò a piovigginare.

Mentre ci addentravamo tra gli alberi, seguendo il sentiero battuto da migliaia di piedi, la pioggia aumentò e cominciò a tramutare il terreno in un suolo fangoso.

Ma non mi importava. Aprii l’ombrello e proseguii, seguendo l’uomo Maya.

Improvvisamente, i miei piedi incontrarono di nuovo il verde dell’erba, alzai lo sguardo e mi ritrovai davanti a uno spettacolo a dir poco incantevole, un luogo che aveva superato di gran lunga i concetti di tempo e spazio e che sembrava essere fuoriuscito da una fantastica illustrazione di un libro di storia: il cuore della città di Chichén Itzá, con la sua piramide di Kukulkan, sito archeologico dichiarato patrimonio dell’UNESCO dal 1988, una delle sette meraviglie del mondo moderno.

Questa costruzione, conosciuta anche come El Castillo ed eretta tra il IX e il XII secolo d.C., è imponente, maestosa nel suo silenzio solenne, come un dio antico che riposa tranquillo, seppur con un occhio semi aperto. E non parlo di dio a caso: questa gigantesca piramide alta 30 metri e la cui base misura più di 55 metri di diametro, venne costruita in onore del dio Kukulkan, ovvero il “dio-Serpente Piumato”, una delle divinità più importanti della Mesoamerica, conosciuto universalmente come Quetzalcoatl, che tradotto indica un “prezioso serpente”.

E questo sacro rettile, durante gli equinozi, ci degna della sua presenza. Sappiamo tutti quanto i Maya fossero ferrati in astronomia, avendo registrato un calendario estremamente preciso, che comprendeva i cicli lunari e solari, le eclissi, nonché il movimento dei pianeti. Per altro, il loro calendario era più esatto rispetto a quello giuliano, basato sul ciclo delle stagioni.

Così costruirono la piramide in modo che due volte all’anno, ovvero durante gli equinozi di primavera e autunno, la luce del Sole potesse e possa tuttora colpire i gradini del tempio in modo tale da formare una grande ombra a forma di serpente, che dura dalla mattina fino al momento del tramonto.

La scalinata stessa, come avrete capito, è una rappresentazione del calendario: 91 scalini distribuiti sui quattro lati della piramide, per un totale di 364 gradini, più un alto gradino all’ingresso del tempio in cima. Ecco a voi, i giorni dell’anno.

Ma a Chichén Itzá non risiede “solo” questa meravigliosa opera architettonica. Mentre camminavo nell’erba bagnata dalla pioggia, il vento cominciava a soffiare un po’ più forte e il cielo si faceva più scuro, vedevo tanti altri edifici sparsi.

Tra questi vi era l’osservatorio astronomico detto Caracol, il Tempio dei Guerrieri, il Tempio dell’Uomo Barbuto (chiamato così dagli archeologi a causa dei ritrovamenti effettuati sulle decorazioni in pietra), il Tempio dedicato al dio della pioggia Chaac, che più di tutti, in quel momento, stava scatenando la sua forza.

Il tutto realizzato, maggiormente, secondo lo stile architettonico Puuc, che prende il nome da un ramo del popolo Maya, così come il nome stesso della mitica città, visto che gli Itza erano un gruppo etnico appartenente ai Maya, il cui nome significava letteralmente “stregoni dell’acqua”, quindi Chichén Itzá è da tradursi come “alla bocca del pozzo degli Itza”, forse perché anticamente esistevano due pozzi naturali molto profondi, i cenotes, di cui vi parlerò più avanti.

Dicevo, questo stile architettonico prevedeva l’utilizzo di pietre impiallacciate, ovvero rivestite di una sorta di adesivo, tetti in pietra con volte a crociera e facciate finemente decorate con mosaici o motivi geometrici sempre in pietra.

In particolar modo, però, ricordo due monumenti: il campo del gioco della pelota e l’altare dei sacrifici umani.

Qualcuno di voi ha visto il cartone animato “La strada per El Dorado”? Se sì, allora saprete benissimo quale fosse il gioco della pelota (palla, in italiano). Le regole sono ancora sconosciute, ma si pensa che fosse una sorta di incrocio tra la pallavolo e il racquetball. Presumibilmente, gli alti anelli in pietra disposti alle due estremità laterali del campo dovevano fungere da canestro, ma non è ancora dato a sapere.

Ciò che si sa è che questo non era un gioco fatto per il semplice divertimento, ma era una vera e propria azione cerimoniale, dove i perdenti venivano assolutamente sacrificati in onore agli dèi.

Per questo popolo, essere sacrificati non era considerato qualcosa di spaventoso, anzi, veniva considerato quasi un onore. Per l’appunto, le vittime di questi rituali non erano mai i prigionieri di altri gruppi etnici, perché considerati non all’altezza, di ordine inferiore, che non potevano essere graditi in alcun modo dagli dèi. Venivano uccisi e basta, senza troppe cerimonie.

Gli uomini Maya si presentavano come volontari ai sacrifici, che potevano avvenire tramite decapitazione o altri metodi, tra cui il più noto, l’estrazione del cuore dal petto. A questo scopo, erano stati costruiti, con tutta probabilità, degli altari raffiguranti un uomo sdraiato, chiamati chac mool, sui quali veniva posizionata la vittima per l’estrazione dell’organo, che veniva poi riposto nel vaso contenuto all’interno della testa della statua. Si tratta comunque di congetture, nulla è certo, poiché il mistero che aleggia attorno a questo popolo è ancora spesso quanto una coltre di nebbia, in cui solo ogni tanto fanno capolino alcuni raggi di sole.

Ho detto che gli uomini si offrivano volontari per essere uccisi in onore agli dèi. Sì, gli uomini, perché le donne e i bambini non avevano facoltà di scelta: se il sacerdote diceva che quella donna o quel bambino dovevano morire, doveva essere così, senza possibilità alcuna. Addirittura, alcuni infanti, neonati compresi, venivano acquistati o presi mentre i genitori erano assenti.

La riscoperta di Chichén Itzá si deve all’esploratore statunitense John Lloyd Stephens nel 1843.

E mentre cominciava a imperversare un vero e proprio uragano (forse il dio Chaac non era di buon umore quel giorno), con tanto di un grosso ramo staccatosi da un albero che quasi mi decapitò (forse il dio Chaac reclamava un sacrificio in suo onore), ci dirigemmo verso un altro sito nelle vicinanze, estremamente importante per la cultura Maya: il Cenote Sacro.

I cenote sono dei grandi e fantastici pozzi naturali di acqua dolce dislocati un po’ ovunque in Messico. Secondo una teoria non accertata scientificamente, quanto invece affascinante, essi si sarebbero creati dopo che un meteorite colpì questa parte di mondo, distruggendosi in mille pezzi che, atterrando al suolo, crearono questi crateri.

Queste strutture generate da Madre Natura, venivano usate per due scopi principali dai Maya: per intenti domestici e per i sacrifici umani (allegria!).

I sacerdoti sceglievano quali potessero essere i cenote da considerare sacri, come una sorta di portali per l’altro mondo, e quali invece erano dei pozzi normalissimi.

Alcune volte, i cenote servivano per gettarvi i resti di qualcuno già precedentemente ammazzato nel corso di un rituale, altre volte si gettavano le vittime direttamente in acqua. Ancora adesso, in alcuni di questi pozzi, vengono ritrovati scheletri e resti umani sul fondale.

Per quanto la narrazione potesse risultare estremamente macabra e dettagliata, osservare quell’acqua dall’alto fu a dir poco spettacolare.

Immaginate un gigantesco buco nella terra, illuminato dalla luce del giorno, dove infinite piante rampicanti e liane si arrampicano sulle pareti in pietra o penzolano nel vuoto.

Una scivolosa scalinata conduceva alla piattaforma più vicina all’acqua, di un colore stranissimo: una forma di turchese mista al verde della vegetazione e al grigiore della roccia, che faceva sembrare l’acqua come la superficie di una pietra preziosa.

E in quell’atmosfera mistica, dove gli antichi dèi sembravano sussurrare forte il loro nome, dove la Natura regnava incontrastata e maestosa, non potei fare altro che spogliarmi e tuffarmici dentro, provando a pensare che sotto di me, si poteva aprire, da un momento all’altro, la porta per gli Inferi. D’altronde, sono un Pipistrello e i Pipistrelli si sentono a proprio agio con l’altro mondo, secondo i Maya.

Non è stato l’unico cenote in cui mi sono addentrata, tutt’altro. Nella prossima puntata vi parlerò di quello sotterraneo.

 

Forse, per alcuni, risulterà crudele ciò che ho appena raccontato. In effetti lo è. Ma se ci pensate, neanche il nostro popolo e gli altri popoli nel mondo non sono stati da meno. Semplicemente, abbiamo cambiato il dio in nome del quale abbiamo compiuto i nostri “sacrifici” anche quotidiani e le nostre Crociate: i Maya avevano il dio della pioggia o il dio-Serpente Piumato, adesso abbiamo il dio denaro e il dio potere.

E forse ho reso concreto questo mio pensiero proprio mentre stavo lì, in quell’acqua dove centinaia d’anni prima, avevano trovato la morte così tante persone.

In effetti, come diceva lo scrittore, reporter di viaggio, pittore e saggista statunitense Henry Miller (1891 – 1980): “La propria destinazione non è mai un luogo, ma un nuovo modo di vedere le cose.”

Scritto da Camilla Marino