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Nell’epoca dell’ignoranza travestita da onniscienza

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Non so voi, ma ultimamente, leggendo i vari commenti che compaiono sotto i reels e i post di Instagram, sto scorgendo un abisso di ignoranza senza precedenti. Gente sgarbata, leoni da tastiera, gente che legge il titolo e non l’articolo ma che comunque si sente in diritto di sentenziare come più le piace, senza avere reali conoscenze.

Insomma, è una Babilonia dell’arroganza… o forse sono io presuntuosa e particolarmente infastidita, da voler attaccare questo mood ormai quotidiano, che però non fa bene a nessuno.

Recentemente, questo atteggiamento da parte di una buona fetta di popolazione mondiale, sembra che stia dilagando a più non posso, come un blob che inghiotte tutto ciò che incontra sul suo cammino.

Ciò mi ha portata a pormi la domanda per eccellenza: perché?

Perché nell’era della digitalizzazione, della globalizzazione, di Internet, l’ignoranza si è diffusa ancora di più?

Per rispondere a questo quesito, tuttavia, come al solito, io parto dalle definizioni. La parola “ignoranza” deriva dal latino “ignorantia”, risultato dell’unione delle due locuzioni “in” (un privativo) e “gnoscere” (conoscere). Quindi, letteralmente, ignoranza è “mancanza di conoscenza”, anche se a essa viene attribuito altresì un comportamento rozzo, maleducato e privo di eleganza.

Già da questo significato, si possono cominciare mille voli pindarici di natura filosofica, poiché sono diversi i pensatori che hanno riflettuto su questa tematica e ne hanno donato la propria visione al mondo.

Lampante tra tutti, nonché uno tra i primi filosofi a elaborarvi sopra un concetto, è Socrate (Antica Grecia, 470 a.C. – 399 a.C.), il cui pensiero risulta fondamentale per comprendere quello che sta accadendo oggi.

Infatti, egli creò il cosiddetto paradosso socratico, ovvero l’ignoranza non intesa come una sempre “mancanza di conoscenza”, quanto invece una consapevolezza di non conoscere la totale verità: “So di non sapere”.

Colui che è ignorante, secondo tale fondamentale logica, ricerca sempre la verità attraverso il dialogo, lo studio e l’accrescimento del sapere.

Chi ha conseguito una laurea in astrofisica può essere totalmente ignorante in arte, uno scrittore può essere ignorante in medicina, un medico può essere ignorante in economia, un “lupo di Wall Street” può essere ignorante in storia. E anche considerando il proprio bagaglio culturale, anche quello sarà incompleto, poiché siamo esseri in costante evoluzione.

Io sono ignorante, nonostante i miei continui studi, anzi sono proprio questi studi a rappresentare la mia ignoranza, la mia voglia di arrivare a conoscere la verità.

Secondo Socrate, dunque, l’ignoranza si “eleva”, per usare un termine forse improprio, alla condizione di docta ignorantia, cioè l’ignoranza come fonte di sapienza.

Quindi, alla figura dell’ignorante, si contrappone quella del saccente, ovvero colui che dichiara di conoscere la verità, quando in realtà non ne ha scorto neanche il bagliore… Forse, la parola “bagliore” sarebbe più da ricondurre a Platone e al suo celebre mito della caverna, anch’esso legato al concetto di ignoranza e conoscenza.

Per Platone, infatti, l’ignoranza è l’oblio, il buio, l’oscurità che ostacola la vista della luce della verità.

Ma discostiamoci da Platone e da Socrate passiamo ai concetti di Seneca (Antica Roma, 4 a.C. – 65 d.C.) e Spinoza (filosofo olandese, 1632 – 1677), totalmente agli antipodi.

Il primo affermava: “Nessuno lontano dalla verità può dirsi felice”, poiché il non sapere, il non ricercare la consapevolezza della propria condizione umana diventa una fonte di dolore. Tuttavia, egli affermava anche: “Qui auget scentiam auget et dolorem”, ovvero “Chi accresce la propria sapienza, aumenta anche le proprie sofferenze”. Un concetto ripreso in parte anche dal filosofo tedesco Schopenhauer (1788 – 1890), che si vede concorde all’idea del tormento direttamente proporzionale alla conoscenza.

Il secondo, invece, rifugge da tale esclamazione, esplicando che, in realtà, più ci si avvicina al sapere e più si può essere felici.

Suppongo che siano cristalline queste due posizioni, risultanti come due poli estremi.

Cionondimeno, credo che la risposta giusta risieda nel mezzo: è, sì, vero che lo studio ti permette di fuoriuscire dall’abisso del non-sapere e ciò può portare a grandi traguardi, alla realizzazione di sé, alla scoperta di nuovi mondi affascinanti. Per fare un esempio banale, mi sovviene la mia viscerale paura dei ragni che avevo quando ero piccola. Mia madre mi disse: “Tu hai paura dei ragni perché non li conosci. Studiali e il terrore svanirà.”.

Effettivamente, aveva ragione: studiare e conoscere la propria paura, ti porta a eviscerarla, a comprenderla più a fondo e quindi a sconfiggerla o, se non altro, a tenerla a bada.

D’altra parte, è altresì vero che il sapere può portare effettivamente a una sorta di tormento interiore. La frase “Beata ignoranza”, non l’ho di certo inventata io… Chi non si fa gli esami del sangue, non sa se il proprio stile di vita sia salutare o meno, quindi, se non ha la volontà di “conoscere”, vivrà allegramente senza mai sapere la verità. Alle volte, si pensa che sia meglio non sapere, illudersi che le cose vadano in un certo modo, quando è vero il contrario.

Dopo questa breve, ma doverosa, infarinatura filosofica sul concetto di ignoranza, torniamo a Socrate, perché in effetti è lui il perno centrale su cui possiamo basare le critiche di oggi.

In sostanza, la domanda che ci poniamo quasi tutti è: com’è possibile che nell’era dell’informazione veloce e istantanea, il tasso di ignoranza si sia alzato in maniera così drastica?

Per rispondere a tale quesito, è necessario introdurre il principio di agnotologia: si tratta, sostanzialmente, dello studio dell’ignoranza costruita.

Ernesto Che Guevara diceva: “Un popolo ignorante è più facile da governare.”. E aveva ragione! L’agnotologia, termine coniato nel 1995 dal ricercatore di Stanford Robert Proctor, è lo studio della letterale diffusione della “non-conoscenza” attraverso informazioni fuorvianti, fake news, menzogne da parte di politici, aziende, sotterfugi bancari e via dicendo.

E il web ci sguazza e ci guadagna con articoli dai titoli clickbait, fake news, video demenziali, dibattiti politici fatti apposta per creare fazioni ben distinte…

Il punto focale, però, dietro al principio di agnotologia e, di conseguenza, di ignoranza, che scaturisce dal web, è da ricercare nel modo in cui funziona il nostro cervello, più precisamente nei cosiddetti bias cognitivi.

E che cosa sono? Conosciuti anche come distorsioni cognitive, essi sono un pattern sistematico di deviazione della norma o della razionalità nei processi di giudizio. In parole povere? Tendiamo a costruirci una realtà iper soggettiva, strettamente correlata a una interpretazione personale e non corretta delle informazioni che riceviamo dall’ambiente.

Per quanto questa definizione possa far sembrare questo “comportamento” come un qualcosa di sbagliato e/o superficiale, in realtà è da considerarsi come comportamento mentale evoluto.

Esistono vari tipi di bias cognitivi, ma quello che sembra interessare particolarmente gli atteggiamenti che la gente prende sui social, è ricollegato ai bias di conferma, noto anche come pregiudizio di conferma.

Facciamo un piccolo passo indietro: il nostro cervello può essere tranquillamente paragonato a un computer, anche se il modo in cui lo usiamo farebbe sicuramente pensare al contrario…

A ogni modo, cosa fa un computer? Raccoglie ed elabora informazioni ed è lo stesso processo che applichiamo noi ogni giorno.

Il punto è che un computer è in grado di assimilare miliardi di concetti nel giro di uno schiocco di dita… la nostra mente, naturalmente, non lo è.

I dati di cui possiamo disporre per comprendere al meglio il mondo e ciò che va oltre, sono di per sé tanti, non facili da assimilare, capire e rielaborare. L’avvento di Internet ha spalancato le porte al sapere, elevandosi a strumento più che prezioso per l’accrescimento del proprio bagaglio culturale.

Ma il dilemma rimane: le informazioni non solo sono troppe, ma sono aumentate in maniera esponenziale grazie proprio a questo strumento.

Gli input che riceviamo sono così numerosi che il nostro cervello, per funzionare in maniera più efficiente, decide quali sono le informazioni di nostro interesse e quali invece trascurabili.

Ma il rovescio della medaglia di questa azione, è proprio lo “stagnare” nella ripetitività degli argomenti, una rigidità mentale che viene coadiuvata dagli algoritmi del web, studiati apposta per proporti costantemente ciò che interessa a ciascuno di noi e lasciando da parte il resto.

Per farvi capire: quante volte avete cercato informazioni su un dato luogo e, improvvisamente, ecco che vi compaiono mille offerte di viaggi, articoli e podcast sullo stesso?

Il bias di conferma, in tutto questo meccanismo, ci porta inconsciamente a ricercare informazioni che confermino la nostra tesi di partenza di un dato argomento, senza però trovarne la confutazione, anzi rifuggendola e rifiutandola.

Oltre a ciò, possiamo aggiungere, il bias dell’ancoraggio, ovvero quel processo psicologico che ci porta ad affidarci in maniera troppo importante alla prima informazione che riceviamo, facendo sì che essa funga da “ancora” nel processo decisionale.

E come non menzionare l’effetto Dunning-Krueger? Una distorsione cognitiva, il cui nome deriva dai sociologi-psicologi David Dunning e Justin Krueger, che descrive il fenomeno per cui qualcuno con scarsa o poca competenza in un campo di studi tende a sovrastimare le proprie capacità, considerandosi come un massimo esperto del suddetto campo.

È quello che capita ogni giorno sui social: le persone vedono un contenuto, per pigrizia mentale non leggono neanche le caption, non guardano i video fino in fondo, non aprono gli articoli… Leggono poche parole, ne ricavano le informazioni che vogliono a loro favore e cominciano con discorsi di una “ignoranza erudita”, per usare un ossimoro. L’elasticità mentale è completamente assente, non c’è un dialogo costruttivo ed ecco che, citando nuovamente il buon vecchio Socrate, ricadono nella saccenza e spesso offendono.

Perché saccenza? Perché avere tra le mani uno strumento come Internet, che fornisce qualsiasi dettaglio su qualsiasi argomento, dona a questi individui il potere di imporre la propria “opinione”, trascurando completamente chi, magari, è più preparato grazie anche ad anni di esperienza e di studio.

Perché dare retta a un medico qualificato, quando posso seguire un tutorial su YouTube? Perché ascoltare un professore, quando il tiktoker di turno diffonde la propria versione dei fatti?

Inoltre, il motivo per cui la gente si sente in pieno diritto di parlare “a sproposito” risiede proprio nella loro ricerca costante di una conferma della loro visione dei fatti, puntando il dito contro chi la pensa diversamente.

Nel nostro Bel Paese in particolare, poi, tale condizione è messa ancora più in risalto da un tasso di analfabetismo funzionale da capogiro.

Per chi non lo sapesse, l’analfabetismo funzionale, conosciuto anche come illetteratismo, è l’incapacità di sfruttare in maniera corretta le doti di lettura, scrittura e calcolo nella quotidianità, con il risultato di una scarsa o assente comprensione del testo.

Lo comprendono in modo sbagliato, scordano le informazioni, le rielaborano come meglio credono, in base anche o solo al proprio vissuto, e non riescono a leggere testi troppo lunghi.

L’analfabetismo funzionale, in Italia, è una vera e propria piaga, poiché coinvolge il 28% della popolazione, secondo i dati forniti da Sanità Informazione nel 2022, portando il nostro Paese al quarto posto nel mondo per il numero di analfabeti funzionali (non è un buon primato). Lo Stato con la situazione peggiore è l’Indonesia, poiché solo nella sua capitale (Giacarta), questa percentuale corrisponde al 68%! Quella messa meglio è la Finlandia, con l’11%.

Più andiamo avanti, peggio sembra diventare. E con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, la situazione precipiterà: la pigrizia mentale aumenterà, perché un motore di ricerca, un software, un robot saranno in grado di realizzare un testo scritto in nostra vece. Sarà l’IA a fare il lavoro per noi.

Insomma, viviamo in un mondo in cui, purtroppo, come diceva il grande scrittore Umberto Eco: I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.

Scritto da Camilla Marino

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