Scommetto che appena avete letto il titolo, nella vostra testa ha cominciato a riecheggiare la celebre colonna sonora del film di Steven Spielberg del 1975 “Lo Squalo”.
Gli squali sono creature affascinanti, delle macchine perfette e misteriose che dominano il mare, tra i top boss della catena alimentare.
Quale periodo migliore, se non questo, per parlarvi un po’ di loro? Giusto il 14 luglio, ha avuto luogo la Giornata Mondiale degli Squali e il romanzo da cui è stata tratta la famosissima pellicola sopracitata, sta festeggiando il suo cinquantesimo anniversario.
Inoltre, tragicamente, questi animali sono sempre più a rischio di estinzione, a causa della pesca intensiva e dei cacciatori che li uccidono per colpa dell’ingiusta nomea di “mangiatori di uomini”.
Quindi, colgo l’occasione per farvi immergere nel mio articolo, dove vi racconto di queste magnifiche creature piuttosto incomprese, anche attraverso i miei immancabili cenni artistici.
Intanto, il nome scientifico degli squali è Selachimorpha (dal greco antico seláchios, “cartilagineo” e morphe “forma” e “aspetto”), vale a dire un superordine di pesci cartilaginei e predatori, dalle medio-grandi dimensioni. Si tratta di esseri viventi dotati di mascelle possenti, il loro è uno tra i morsi più potenti del regno animale, con una forza pari a circa 4.000 N (N sta per newton, l’unità di misura della forza).
Un morso che viene effettuato attraverso una serie di file di denti di riserva, decisamente aguzzi e dolorosi. Se ne cade uno, eccone pronto un altro che lo rimpiazza. Mi immagino quanto debba essere impegnata la Fatina dei denti…
Questi animali sono sempre avvolti da un’aura quasi mitica, oserei dire enigmatica, come l’origine del loro nome: nessuno, infatti, sa indicare con assoluta precisione la derivazione del termine “squalo”.
Si pensa che possa essere nato dal latino squalus, a sua volta connesso all’espressione nordica hvalr, che vuol dire “balena”, e al prussiano antico kalis, con cui si identificava un pesce mostruoso bello grosso. Dal canto suo, kalis arriva dalla lingua proto-ugrofinnica (lingue uraliche, ungherese, finlandese ed estone, tutte incluse in questo gruppo) con il suo kala, letteralmente “pesce mitico”.
Effettivamente, questa fama si addice molto a un essere comparso sulla Terra 400 milioni di anni fa e sopravvissuto persino all’estinzione dei dinosauri.
A differenza di qualsiasi pesce osseo, il loro scheletro è costituito praticamente solo da cartilagine, il che li rende molto più leggeri e veloci nel nuoto. Inoltre, la loro mascella non è attaccata al cranio e ciò può permettere loro di addentare grandi bocconi o, addirittura, di inghiottire per intero la preda.
Al mondo esistono circa 500 specie diverse di squali, ognuna unica nel suo genere. Comprendono creaturine piccoline come lo squalo lanterna nano, capace di stare sul palmo di una mano e circolante nelle acque profonde (fino a 439 m) del Venezuela e della Colombia, fino ai giganti dell’oceano come lo squalo balena, considerato il secondo animale più grande al mondo.
Sono per la maggioranza carnivori, ma alcuni di loro si nutrono di plancton, come il già citato squalo balena o l’altrettanto mastodontico squalo elefante, che gira sempre con la bocca spalancata.
Inoltre, immagino voi pensiate che lo squalo sia un pericolo solo in mare, perché nuota nell’acqua salata… Invece, esistono anche gli squali d’acqua dolce, come lo squalo dello Zambesi, conosciuto anche come squalo leuca.
Curiosità: nel Tamigi, il fiume di Londra, il cui estuario si affaccia sul Mare del Nord, nuotano diversi squali, soprattutto per partorire. Tra questi, figurano il galeo, lo spurdog e il palombo stellato.
Per chi se lo stesse chiedendo, queste bestie possono riprodursi in tre modi.
- Oviparità: le uova vengono deposte. Composte da un materiale molto simile a quello della pelle dello squalo, proteggono l’embrione dagli agenti esterni. Un esempio possono essere i cosiddetti borsellini delle sirene, l’appellativo con cui si designano sacche vuote di uova di squali o razze che vengono rinvenute sulla spiaggia. Un tipo di squalo oviparo è il Port Jackson, che si trova spesso tra le coste dell’Australia meridionale.
- Viviparità: sostanzialmente, come la maggior parte dei mammiferi. La madre ha una placenta all’interno della quale si sviluppa il piccolo, che uscirà perfettamente formato. I vivipari sono, tra i vari, i già citati squalo elefante e leuca. Anche lo squalo tigre appartiene a questa categoria.
- Ovovivipari: in questo caso, le uova non vengono deposte, ma vengono conservate all’interno del corpo della madre e l’embrione si nutre tramite l’ovidotto. Come i vivipari, al momento della nascita, uscirà un piccolo già sviluppato.
Dopo questo breve ID su questi affascinanti animali, veniamo al sodo.
Fa caldo. No, non è una constatazione personale del momento, semplicemente, ogni anno la temperatura aumenta sempre di più, chiamasi quindi riscaldamento globale.
Cos’ha a che veder questo fatto con gli squali? Beh, oltre a condizionare le loro rotte, i luoghi di caccia e riproduzione, gli studiosi stanno notando come questo fenomeno possa avere un’influenza anche fisica.
Secondo un articolo pubblicato sulla rivista Current Biology, a causa del riscaldamento globale, gli squali stanno diventando sempre più grandi e veloci. I ricercatori, infatti, hanno constato che molte delle 500 specie esistenti in natura, stanno cominciando a cambiare il proprio habitat, passando dai fondali al mare aperto. Questo ha comportato una modifica delle pinne pettorali, che sono diventate più lunghe e affusolate, per permettere allo squalo di nuotare con maggiore velocità ed efficienza.
In realtà, non è la prima volta che avviene questa mutazione. Si è scoperto, per l’appunto, che circa 93 milioni di anni fa, durante il Cretaceo inferiore, avvenne un innalzamento della temperatura analogo e questi animali subirono un’evoluzione proprio per poter sopravvivere a un’acqua più calda e meno ossigenata, specialmente nei fondali.
È ancora troppo presto per affermare con certezza quali saranno i cambiamenti fisici e comportamentali cui saranno sottoposti questi grossi pescioloni, ma sicuramente, un effetto del cambiamento climatico è, come accennavo sopra, lo spostamento di alcuni esemplari nelle acque più a nord, con più avvistamenti vicino alle coste.
Ora, lo so bene cosa starà pensando la maggior parte di voi. Il film di Spielberg ci ha mostrato cosa avviene quando uno squalo si avvicina troppo alla costa. Per lui, il buffet è servito. E invece non è sempre proprio così.
Certo, naturalmente, con la maggiore prossimità alla terraferma, gli attacchi sono ovviamente lievemente aumentati, come riporta l’International Shark Attack File (ISAF): questo database ideato dagli scienziati dell’Università della Florida (laggiù, di squali e anche di alligatori, se ne intendono, fidatevi di me, che ci ho soggiornato), ha contato 69 casi a livello mondiale nel 2023, contro la media dei 63 annuali degli anni precedenti.
Come avete modo di intuire, i numeri sono davvero irrisori, anche se mi dispiace per le povere vittime.
Chiariamo subito un punto: noi esseri umani non facciamo parte della dieta degli squali, non abbiamo neanche un gusto affine al loro palato.
Al contrario di quanto viene mostrato nei film che hanno queste creature come antagoniste, gli squali non uccidono e non cacciano l’uomo senza pietà alcuna, guidati da una fame furiosa.
Anzi, è statisticamente più probabile essere colpiti da un fulmine piuttosto che essere attaccati da questi animali e non si tratta di una frase fatta: lo conferma l’Università della Florida, il cui database dimostra come le vittime di un attacco letale siano circa una decina all’anno. Sono maggiori le persone che muoiono sbranate dai cani (35 mila all’anno), per non parlare dei decessi causati dalle zanzare, che si aggirano attorno ai 750 milioni all’anno (ho scritto un articolo inerente alla malaria, potete leggerlo cliccando qui).
Attenzione, con questo non sto dicendo di tuffarsi a caso in mezzo al mare o di andare a dare un bacetto a questo pesce ultra dentato.
Quando nuotate, ci sono dei piccoli accorgimenti che vanno presi per rischiare il meno possibile un attacco (ne so qualcosa, visto che in quasi tutti i miei viaggi ai tropici nuoto con gli squali sia con che senza shark cage).
Per comprenderli, bisogna conoscere anche il metodo di caccia di questi predatori. Il senso della vista è particolarmente sviluppato in alcune specie, ma in altre no, dato che alcuni esemplari vivono in condizioni di visibilità piuttosto precarie, quindi non sono gli occhi lo stratagemma più indicato durante la caccia. Ciò che veramente gli squali utilizzano per procurarsi il cibo, sono l’olfatto e l’elettroricezione. Alcune specie possono letteralmente percepire una parte per milione di sangue in acqua, praticamente una goccia in mezzo al mare. Inoltre, sono molto sensibili alle vibrazioni provocate dai movimenti dell’acqua.
Per questo, quando ci troviamo nelle vicinanze di uno di questi cacciatori marini, conviene non fare movimenti bruschi, sbattere la superficie dell’acqua o quant’altro. Al contrario, bisogna cercare di mantenere la calma e muoversi con tranquillità. Più vi muovete in maniera forsennata, più lo squalo penserà che siate una potenziale preda. È assolutamente sconsigliato tuffarsi in mare di notte e soprattutto di fare il bagno in zone dove si sa che circolano gli squali (la loro presenza è segnalata da un cartello).
Ma se uno sta bello tranquillo, non sanguina o non urina in prossimità di una belva simile, perché questa attacca?
Avete mai visto uno squalo avvicinarsi e chiedervi “Ehi, tu! Che ci fai a casa mia? Cosa sei?”?
Gli squali, non avendo la capacità di parola o delle mani per poter toccare e tastare, per capire che cosa sei, si devono affidare all’unico mezzo di cui dispongono: le fauci.
Prima ho detto che la vista non è un senso che usano in particolar modo per cacciare, anche perché questi predatori, dall’alba dei tempi, hanno una sorta di memoria fotografica di tutti quelli che sono i possibili pesci, mammiferi o altri animali che fanno parte dell’ecosistema ittico e di cui si possono cibare.
L’essere umano non è un animale acquatico, dunque, per natura, non fa parte della loro alimentazione. Ma i nostri movimenti corporei, abbinati magari a una tavola da surf o a un kayak, ci fanno sembrare, dal basso, a una foca o a un’otaria, bestie di cui vanno ghiotti.
Quindi ci vedono, rimangono un po’ spaesati e confusi e cercano di capire se possono mangiarci dandoci un morsetto… che però, ci trancia nel frattempo una gamba. Spesso capita che dopo averlo fatto, gli squali si allontanino e si dileguino, perché abbiamo un sapore sconosciuto alle loro papille gustative.
Nel caso di attacco, bisogna cercare di colpire il naso, gli occhi e le branchie, parti molto sensibili.
Per certo, le eccezioni esistono, dipende dall’aggressività della specie e anche da come ci comportiamo quando siamo nel loro territorio. Alcuni esemplari sono più pericolosi di altri.
Nella top 3 figurano: il grande squalo bianco (il protagonista assoluto di tutti i film su questi super predatori, il big boss del mare), lo squalo tigre e, primo fra tutti, lo squalo leuca.
In realtà, i bianchi e i tigre sono piuttosto “tranquilli”, contrariamente a quanto si pensa. Sono i leuca e i longimanus, invece, a essere il vero pericolo quando ci si trova nell’oceano. In particolar modo, i longimanus sono considerati gli “spazzini del mare” e rappresentano la prima preoccupazione durante i naufragi e i disastri aerei.
Sfortunatamente, questa infame nomea di “mangiatori di uomini” contribuisce alla loro sempre più vicina estinzione.
Non è comunque questa la ragione principale dietro le uccisioni degli animali.
“La mortalità globale degli squali è leggermente aumentata”, afferma Boris Worm, ecologo marino presso la Dalhouise University in Canada, ma questo avviene a causa della pesca intensiva non solo di altre creature ittiche, ma degli squali stessi, ingredienti di alcune pietanze.
Un esempio è la famosa zuppa di pinne di squalo, specialità cinese che ha provocato e continua a provocare una moria di squali veramente alle stelle. Fino a una decina di anni fa, veniva addirittura eseguita la pratica, a dir poco barbara, del finning, ovvero la cattura di uno squalo con lo scopo di recidergli solo le pinne, per poi ributtare la povera bestia mutilata in mare. Quest’attività ora, fortunatamente, è illegale nel 70% dei Paesi e dei territori d’oltremare.
Nonostante ciò, purtroppo, le morti continuano e sono dovute anche alle reti da pesca che li intrappolano e li feriscono, perché progettate per catturare i pesci dalle branchie.
Per non parlare, poi, dell’utilizzo che viene fatto della cartilagine e dell’olio di fegato nell’industria medica e cosmetica.
A questo proposito, occorre aggiungere un appunto: il fatto che gli squali non si ammalino di cancro è una leggenda metropolitana, non è vero. Eppure, negli anni Novanta questa convinzione si era diffusa a macchia d’olio, portando alla commercializzazione di diversi integratori composti da cartilagine di squalo, da distribuire tra i pazienti oncologici. Sono diversi gli studi che hanno smentito questa diceria, riscontrando che questi integratori non hanno alcun effetto sulle persone malate.
Semplicemente, si suppone (poiché le ricerche sono ancora in corso e difficili da concludere) che gli squali abbiano una possibilità minore di ammalarsi a causa della loro struttura cartilaginea. A differenza delle ossa, la presenza di vasi sanguigni è ridotta, ergo, un tumore ha bisogno di essi per alimentarsi.
Ecco, dunque, per quale motivo la pesca intensiva degli squali sfocia nel campo medico.
E in questo scempio, ci si mette in mezzo anche il “fattore souvenir”: quanto fa figo tornare a casa con un dente di squalo appeso al collo o appendersi una mascella di uno squalo mako al muro?
Solo nel 2019 sono stati registrati 79 milioni di squali pescati, di cui 25 facenti parte di specie a rischio.
Come al solito, l’uomo non riesce a non sopraffare e arraffare, arraffare, arraffare. Si deve prendere tutto, persino il mare, che non è il suo territorio naturale, con metodi invasivi e crudeli. Non ci smentiamo mai in fatto di egoismo…
Egoismo che risulta dannoso e potenzialmente mortale anche in altri modi, come nel caso venuto a galla in questi giorni: attorno alle coste del Brasile, sono stati analizzati alcuni squali dal muso affilato e sono risultati positivi alla cocaina! La droga è stata dispersa in mare non solo attraverso gli scarti dei laboratori illegali in cui viene prodotta e dai pacchetti bianchi che finiscono casualmente nelle acque, ma anche dagli escrementi dei tossicodipendenti.
Tra gli squali che rischiano maggiormente l’estinzione, figurano:
- Lo squalo angelo, ormai considerato estinto sia nel Mare del Nord che nel Mediterraneo
- Il Daggernose Shark, chiamato così per la forma del suo muso, molto simile a quella di un pugnale, che vive tra Trinidad e il Brasile
- Lo squalo zebra, avvistato spesso tra Oceano Indiano e Pacifico, particolarmente vulnerabile e pescato per la sua carne e il suo olio di fegato
- Il grande squalo bianco… eh sì, purtroppo anche lui non è esente da questo triste elenco
- Lo squalo mako, che viene pescato per ragioni alimentari e il cui aspetto è talmente spaventoso da essere stato sfruttato per la locandina di “Jaws” (nonostante lo squalo protagonista sia un great white)
- Lo squalo elefante, le cui carni non vengono consumate solo dall’uomo, ma vengono sfruttate anche per la creazione di alcuni mangimi per animali
- Il Dumb Gulper Shark, i cui ormai rarissimi avvistamenti avvengono nei pressi di Australia e Nuova Zelanda
- Lo speartooth skark, già a rischio di estinzione a partire dal 1999
- Lo squalo balena, la cui caccia, vendita, esportazione e importazione è illegale dal 1998 nelle Filippine, dal 2001 in India a dal 2007 a Taiwan
- Lo squalo bruno, avvistabile principalmente nel Golfo del Messico e la cui estinzione può essere coadiuvata dal suo basso tasso di riproduttività (e io mi sono immersa con lui alle Hawaii)
Questa è la situazione attuale: un drammatico massacro.
Non mancano le specie di squali più misteriose, su cui si hanno pochi dati a disposizione per la rarità degli avvistamenti. Da pochi anni, infatti, è globalmente conosciuto lo squalo della Groenlandia, per esempio, un pesce di grandi dimensioni che può arrivare anche a una lunghezza di più di sette metri, che vive (indovinate un po’?) nell’Oceano Artico, vicino alle coste della Groenlandia e dell’Islanda.
Si tratta del vertebrato più longevo mai conosciuto, è stato avvistato un esemplare che si presume sia nato nel 1505, quindi con un’età compresa tra i 519 e i 399 anni (considerando un margine di errore di 120 anni)!
La sua carne è nociva per l’uomo, a causa di una tossina, l’ossido di trimetilammina, che se ingerita dà l’impressione di essere reduci dalla sbronza del secolo, altro che gin tonic!
Per questo, gli islandesi hanno adottato un procedimento molto particolare di bollitura, essicazione e fermentazione di questa carne, per poter produrre una prelibatezza chiamata kæstur hákarl, che letteralmente significa “squalo fermentato” o “squalo putrefatto”… Beh, di certo il nome non invoglia molto a mangiarlo.
Una delle star indiscusse dell’oceano, però, è una femmina di squalo bianco, conosciuta come uno tra i più grandi esemplari mai visti nella storia: Deep Blue. Lunga più di sei metri, con un peso di circa due tonnellate, viene spesso avvistata in Messico e alle Hawaii, mentre nuota calma e tranquilla con la compagnia di alcuni sommozzatori.
Come avrete inteso, si tratta di animali talmente straordinari, che catturano così tanto la curiosità dell’uomo, che non mancano opere d’arte con loro come interpreti principali.
Tralasciando tutti i blockbuster commerciali del caso (non mi metto a parlare in questa sede di Jason Statham che prende praticamente a sberle un megalodonte, un antenato gigante ormai estinto… o forse no?), mi riferisco a “Lo squalo”, di Damien Hirst, un artista contemporaneo britannico decisamente provocatorio nella sua arte.
Hirst, infatti, affronta tematiche odierne con messe in scena decisamente poco convenzionali. Una dimostrazione, per l’appunto, è il lavoro sopracitato, risalente al 1991 e il cui titolo originale è “The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living”.
Non è un dipinto, né una scultura, ma uno squalo tigre lungo più di quattro metri per circa due tonnellate di peso, sospeso con la bocca spalancata in una vasca piena di formaldeide, esposto alla Tate Modern di Londra.
Damien voleva analizzare il tema dell’immortalità, attraverso una creatura maestosa, che risulta letale anche nella morte, bloccata in una eterna posizione d’attacco che non fa altro che paralizzare lo spettatore, proprio come se stesse avvenendo un incontro ravvicinato dal vivo.
Hirst affermava: “Mi piace l’idea che qualcosa descriva una sensazione. Uno squalo fa paura, è più grande di te, si muove in un ambiente a te sconosciuto. Sembra vivo quando è morto e morto quando è vivo.”.
Queste parole mi ricordano molto quelle pronunciate dal Capitano Quint, interpretato da Robert Shaw, nel masterpiece “Lo Squalo” (“JAWS” il titolo originale) di Steven Spielberg, classe 1975, l’opera filmica che ha portato sotto le luci della ribalta quell’allora giovane e semisconosciuto regista, poi consacrato a gigante del cinema. Si tratta di uno dei film con il maggior incasso nella storia, vincitore di tre premi Oscar, tra cui il miglior montaggio, il miglior sonoro e la miglior colonna sonora, firmata da John Williams.
Come dicevo, questo film è tratto dall’omonimo romanzo di Peter Benchley, uscito nel 1974, ispirato a sua volta ai reali attacchi avvenuti nel 1916 a Jersey Shore, nonché alla cattura di uno squalo bianco di due tonnellate nei pressi di Long Island. All’epoca non esisteva ancora tutta questa conoscenza su questi animali e Benchley dichiarò che non avrebbe mai scritto il suo libro, se avesse saputo il reale comportamento di questi predatori, che di certo non si mettono a inseguire una barca e ad affondarla per mangiarsi chi è a bordo (da piccola, la morte di Quint nel film mi disturbava non poco, bravo Spielberg!).
Un altro romanzo, da me letto, che vi consiglio assolutamente, è “Sulla rotta degli squali”, di Wilbur Smith, pubblicato nel 1979.
In questa adrenalinica storia d’avventura, l’affascinante pescatore di marlin Herry Fletcher viene coinvolto, suo malgrado, in una caccia al tesoro spietata, dove i pericoli sono costantemente dietro l’angolo. E tra questi pericoli, naturalmente, ci sono anche alcuni squali decisamente poco amichevoli.
Elaborerò sicuramente una recensione più approfondita in merito.
Esiste anche un olio su tela raffigurante un attacco di squalo: “Watson e lo squalo”, risalente al 1778 e prodotto dalla mano del pittore statunitense John Singleton Copley. Il dipinto, di dimensioni ragguardevoli e di cui esistono ben tre versioni, venne commissionato all’artista dallo stesso Brook Watson, che aveva realmente subìto un attacco da parte di questa creatura quando aveva quattordici anni, mentre lavorava come mozzo a bordo della Royal Consort. Nell’incidente perse la gamba destra e venne tratto in salvo solo al terzo tentativo.
L’opera figurativa mostra proprio questo momento. Copley ha deciso di “alleggerire” l’episodio, infatti la gamba staccata a morsi è nascosta tra le onde del mare, con giusto un po’ di sangue che arrossisce l’acqua.
Evidenti sono i richiami all’arte rinascimentale, così come si può notare un’ispirazione all’antica statua del “Gruppo di Laocoonte” nella composizione del team di salvataggio sulla barca.
È altrettanto evidente, tuttavia, come, molto probabilmente, il pittore non avesse mai visto uno squalo: la bestia da lui rappresentata, infatti, ha caratteristiche fisiche e anatomiche non possedute realmente da questi animali, come le labbra, gli occhi simili a quelli di una tigre e le narici che sembrano inspirare l’aria al di fuori dall’acqua.
Concludendo, spero di aver fatto chiarezza su queste splendide e misteriose creature, come accennavo sopra anche incomprese.
Si ha tanta paura, giustamente, di quei denti, di quegli occhi che in alcuni esemplari risultano palle nere apparentemente senza vita. Gli squali sono innegabilmente pericolosi, non bisogna sottovalutarli, soprattutto perché con il riscaldamento globale il loro comportamento sta trasmutando.
Dobbiamo semplicemente ricordarci che quando ci immergiamo da qualche parte, è come se entrassimo a casa loro. Quando varchiamo la soglia di un’abitazione che non è la nostra, è d’uopo pensare che sia necessario comportarsi con rispetto nei confronti dei suoi abitanti, nonché dell’ambiente.
Per giunta, noi non siamo invitati nel loro habitat. È nostro compito lasciare che gli squali possano vivere serenamente ed è nostro dovere cercare di preservare questa specie, preziosissima per l’ecosistema del pianeta, perché tutto, in fondo, è un domino.
D’altronde, come dice l’aforista Fabrizio Caramagna: “Ogni anno, gli squali assassini fanno una dozzina di vittime. Gli uomini uccidono almeno un milione di squali. Chi è il più feroce tra i due?”