Oggi vorrei raccontarvi una storia, una curiosità segnalatami da un lettore della mia testata, che mi ha chiesto di scrivere un articolo in merito a questo argomento decisamente interessante.
Nella letteratura e nella storia, sono diverse le donne che si sono travestite da uomo, ognuna con uno scopo diverso. Chi per imbarcarsi su una nave in cerca di avventura, chi per nascondere la propria identità, chi per necessità, chi per salvarsi da un destino infausto.
Ma voglio parlarvi di una categoria di donne molto particolari che sono quasi scomparse, ma ancora presenti in una piccola parte di mondo, menzionando, come mio solito nei miei scritti, l’arte.
Mi riferisco alle burrneshe.
Chi sono? Cosa vuol dire questa singolare espressione? Con essa si designano delle donne che vivono nella parte settentrionale dell’Albania, in Kosovo e, anche se in quantità minore, in Montenegro.
Questo termine è il risultato dell’unione della parola burrë, che in albanese vuol dire “uomo”, e del suffisso femminile -neshë. Ergo, burrneshe significa letteralmente “simile a un uomo”.
Prima che qualcuno di voi marchi il fenomeno come qualcosa di inerente alla comunità LGBTQ+, vi avviso che siete fuori strada.
Queste donne, specialmente in passato, hanno fatto parte di una società e di una cultura puramente patriarcale, dove al sesso femminile non veniva concesso granché. A loro non era consentito vivere da sole, rifiutare un matrimonio, votare, fumare o bere alcolici.
Per poter essere indipendente e libera, una ragazza doveva effettuare un vero e proprio cambio di status e “trasformarsi” in un uomo, appunto, la burrnesh.
No, nessuna operazione chirurgica, qui si tratta di una sorta di “Lady Oscar” della situazione.
Ciò avveniva qualora una donna volesse avere una propria indipendenza economica, se rifiutava un matrimonio o anche nel caso non ci fosse la presenza di un figlio maschio che potesse sostituire la figura del capofamiglia. In effetti, a quel tempo, avere solo figlie femmine era socialmente considerata una sfortuna, quasi una vergogna.
Infatti, era il legame di sangue patrilineare (denominato linja gjakut) a essere il vero peso per la stabilità socioeconomica della famiglia, non il lignaggio femminile (che prendeva il nome di linja e tamblit).
All’interno di queste piccole collettività, ciò che noi consideriamo il nucleo familiare (madre, padre, figli) era, in alcuni casi ancora rimane, solo una piccola parte di un clan ben più esteso. Perciò, era importante che questo clan venisse governato da un buon capofamiglia maschio (che poteva essere il nonno, lo zio o chiunque altro) e che i matrimoni tra le varie casate fossero predisposti alla crescita economica e sociale della stirpe. Per questo motivo, erano assolutamente vietate le unioni tra parenti, compresi i lontani cugini.
La ragazza diventava una burrnesh anche quando si rivelava essere omosessuale. Ovvio, all’epoca non si parlava certo di coming out, ma si faceva capire, in una maniera più o meno velata, quali fossero i propri gusti sessuali.
Quando una ragazza diventava una burrnesh, l’intera comunità si riuniva per dare il benvenuto a “un nuovo uomo”, attraverso una vera e propria cerimonia cui presenziavano i dodici uomini più anziani e influenti del paese.
Durante il rito, la giovane pronunciava un giuramento di conversione e faceva un voto di castità. Ecco, dunque, che le burrneshe prendevano il nome, in lingua nostrana, di vergini giurate.
Nel corso della celebrazione, le venivano tagliati i capelli per avere una capigliatura più mascolina e avveniva la vestizione, dove la donna rinunciava per sempre agli abiti femminili per indossare quelli maschili.
Anche il suo nome cambiava, esattamente come è successo a Hana, che è diventata Mark Doda, ma di lei vi parlerò tra poco.
Un altro rito di passaggio di questa festa, era far bere così tanto alcol alla burrnesh da farla ubriacare.
Una volta compiuto il tutto, diventava un uomo a tutti gli effetti, con tutti i privilegi e i diritti che permetteva questa posizione: come accennavo sopra, fumare, bere alcolici, comprare e vendere proprietà o ereditare i beni di famiglia.
Ma a quale prezzo? Quello di rinunciare per sempre alla propria identità, di non essere madri o mogli, conquistando, sì, questa indipendenza, ma non in quanto donna.
Tutto ciò che vi ho raccontato fa parte dei regolamenti contenuti nel cosiddetto Kanun.
Il Kanun, conosciuto anche come Kanuni o canone di Lekë Dukagjin, è il codice di diritto consuetudinario albanese, che governa ogni norma sociale della comunità, comprendendo sia il diritto civile che quello penale, ergo, può immischiarsi nella vita privata dei nuclei familiari.
Coordina, per l’appunto, Chiesa, fidanzamenti, matrimoni, successioni, la proprietà privata e anche l’onore.
Questa magica parolina, onore, non dovrebbe essere tanto sconosciuta a noi italiani, visto che fino a una manciata di decenni fa, la nostra Corte Costituzionale accettava il cosiddetto delitto d’onore.
Ecco, anche il Kanun lo promuove. Secondo questo codice, infatti, la vendetta di sangue è cosa buona e giusta: se un consanguineo viene ucciso, è dovere del maschio di turno vendicarlo, colpendo a morte non solo il diretto interessato, ma anche i suoi parenti maschi fino al terzo grado (anche se quest’ultima opzione è facoltativa).
Se l’uomo si rifiuta di mettere in atto la propria vendetta, il disonore cade sulla sua testa (perde la sua besa, l’onore individuale), la società taglia i ponti con lui e persino la sua famiglia lo priva del cosiddetto nder (l’onore della famiglia). Uno dei tanti segnali che fanno capire la perdita del rispetto da parte della famiglia verso uno dei suoi membri, è il caffè sotto al ginocchio: quando si è seduti a tavola tutti insieme, il caffè viene servito a ognuno sul tavolo, ma il “codardo” non può avere questo diritto. A lui, la tazzina viene posta per terra, accanto al suo piede, vicino alla gamba della sedia, poco sotto al ginocchio, appunto.
Del Kanun, esiste solo una copia scritta, perché fa parte della tradizione orale tramandata ormai da secoli. Questa copia è quella redatta intorno al 1912 dal frate francescano originario del Kosovo Shtjëfen Kostantin Gjëcov, che all’epoca elaborò ben 12 volumi in dialetto ghego, facente parte della lingua albanese.
All’interno della sezione legata alla già sopracitata besa e al nder, viene specificato come esse comprendano, tra le altre cose, la castità delle figlie nubili, l’obbedienza dei figli scapoli, la fedeltà da parte delle mogli, il coraggio dei mariti e degli uomini in generale che devono tenere alto l’onore.
Non ricorda un po’ la cultura patriarcale che vigeva (e che un po’ vige ancora in alcuni posti più isolati) nell’Italia meridionale fino a non molto tempo fa?
Effettivamente, già nel XV secolo, il Kanun era giunto nel Bel Paese attraverso la lingua tosca, quando gli Arbëreshë (gli italo-albanesi) furono costretti a fuggire dall’Impero Ottomano. Il Kanun attecchì molto nelle regioni di Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, anche se nei secoli successivi subì delle variazioni e andò a perdersi, soprattutto con l’arrivo della mafia.
Cionondimeno, per molto tempo ci furono alcune similitudini tra le due culture, mafia compresa. Un esempio? Le donne e i bambini non dovevano essere toccati e non si poteva uccidere un uomo in presenza di una donna o di un bambino.
Tornando alle vergini giurate, ecco cosa dicono due delle norme contenute all’interno del codice:
- “La donna non ha secondo la legge personalità giuridica. Essa non è accettata: come giudice; come delatrice; come giurata; non ha voto, né posto ai convegni; non eredita né dai parenti, né dal marito; non è fatta segno della vendetta.”
- “Le vergini (donne nubili che vestono come uomini e portano anche le armi): non si distinguono dal resto delle donne ma hanno facoltà di prendere parte ai convegni però senza il diritto di voto.”
Queste caratteristiche “donne-uomo” sono anche le protagoniste indiscusse di alcune opere artistiche.
Prima fra tutte è il romanzo creato dalla scrittrice albanese Elvira Dones, nel 2007: “Vergine giurata”.
È qui che entra in gioco la burrnesh da me sopracitata Hana. La storia, infatti, ambientata alla fine degli anni ’80, si incentra su una ragazza diciannovenne di nome Hana che, per sfuggire a un matrimonio combinato per salvare il clan, dato che il capofamiglia sta morendo, decide di diventare una vergine giurata, di abbandonare per sempre gli abiti femminili in favore di quelli maschili, tagliarsi i capelli e diventare Mark Doda.
Per quattordici anni, Mark vive la propria vita come un uomo sulle Alpi albanesi, ma dentro di sé cova una solitudine senza pari. In questo arco di tempo, si convince di raggiungere la cugina negli USA, dove ricomincerà a riappropriarsi della propria identità di donna.
Da questo romanzo potentissimo, ne hanno tratto un film omonimo, presentato al Festival di Berlino nel 2015, diretto da Laura Bispuri, con protagonista l’attrice italiana Alba Rohrwacher.
Inoltre, un consiglio spassionato è la lettura del saggio dell’antropologa Antonia Young, intitolato “Women ho become men”, che propone gli studi condotti dalla Young su questa tradizione nell’arco di venticinque anni.
Ma sicuramente, un’altra opera d’arte grandiosa è quella nata dalla mente e dall’occhio della fotografa nostrana Paola Favoino, che è stata di persona tra i monti dell’Albania, per poter raccontare, attraverso le sue foto, questa storia a dir poco bizzarra e stravagante per noi, narrando di quelle che sembrerebbero essere le ultime 12 burrneshe esistenti al mondo, tutte donne anziane.
Con la sua collezione di scatti, intitolata “Je burrneshe!”, un riferimento al modo di salutare tipico delle donne della zona “Je burrneshe?” (“Sei un uomo o sei una donna?”), Paola vuole non solo mostrarci una realtà non così antica di un popolo, ma ricordarci che la condizione della donna è ancora precaria e minacciata in diverse parti del mondo, per colpa di una (sub)cultura patriarcale e maschilista.
Forse le donne non sono più costrette a travestirsi da uomo per conquistare una certa libertà, ma rimangono comunque soggiogate al volere maschile in molti Paesi del globo. Non vi viene in mente niente del genere? Pensate alle donne in Afghanistan, in Iraq, in Iran, che non possono circolare senza la presenza di un maschio che vegli su di loro o senza uno hijab o peggio, un burqa. Ho scritto un articolo sul tema, che potete leggere cliccando qui.
Nel caso delle vergini giurate albanesi, qualcuno potrebbe persino pensare che diventare burrneshe sia stata per loro una libera scelta.
Come ci si può riferire al concetto di ”volontà propria” quando devi rinunciare al tuo nome, alla tua identità, al tuo genere, per poter avere dei diritti che dovrebbero essere sacrosanti per chiunque, a prescindere dal sesso, dal colore e dall’etnia?
Che razza di libertà è una libertà in cui non hai la facoltà di vivere da sola, scegliere i tuoi partner, votare, praticamente vivere la tua vita, a meno che tu non decida di diventare qualcuno o qualcosa che no sei?
Certo, all’epoca, questo atto, in realtà, era una gran prova di coraggio da parte di queste donne. Una sorta di ribellione, anche si imposta, al patriarcato, un “se devo scegliere tra rimanere in gabbia ed uscirne cambiando il mio nome, io decido di non essere la figlia prediletta, brava, buona e zitta, in silenzio.”.
Ma ciò deve farci riflettere in maniera molto approfondita sulla libertà femminile, non ancora ottenuta, neanche nel mondo Occidentale, in tanti casi. Guardate le differenze salariali, i trattamenti diversificati sul luogo di lavoro, le lotte per l’aborto le cui leggi vengono enunciate anche dagli uomini (banalmente, cosa può saperne un uomo di come ci sentiamo noi donne ad avere un utero, una creatura nel grembo? Come possono, dunque, comandarci come gestirlo?).
In fondo, forse in maniera metaforica, ancora oggi, molte di noi, indossano una maschera per essere accettate socialmente…
Come diceva l’ex giudice associato della Corte suprema degli Stati Uniti d’America, Ruth Bader Ginsburg (1933 – 2020): “Le donne appartengono a tutti i luoghi in cui vengono prese le decisioni… Non dovrebbero essere l’eccezione.”