Se vi dico Nicolas Flamel, cosa vi viene in mente? Credo che la prima immagine mentale, per la maggior parte di voi, me compresa, sia quella del capitolo iniziale della saga di Harry Potter: “Harry Potter e la pietra filosofale”.
Beh, oggi non voglio parlarvi del capolavoro della scrittrice J.K. Rowling, ma della disciplina per cui Flamel è ancora oggi conosciuto, il cui obiettivo, fra i tanti, era la creazione della pietra filosofale, per l’appunto: l’alchimia.
Questa materia complessa nasconde tanti misteri e nel mondo dell’arte la sua storia è contornata da una moltitudine di simbologie visive che compaiono più spesso di quanto si pensi.
Mi piacerebbe introdurvi a questo argomento, che io reputo estremamente affascinante!
Scopriamo di cosa si tratta.
Le origini della parola alchimia sono svariate, a partire dal greco antico khymeia che vuol dire “fondere, saldare, allegare, colare insieme”; arrivando alla lingua araba con al-kyimiyya, che significa letteralmente “la chimica”. E ancora, nell’Antico Egitto era Kemet, “terra nera”, un’espressione usata per descrivere il suolo su cui abitava il popolo: il termine si è poi evoluto nel significato “arte egizia” perché correlato a tutti i riti magici di quella cultura. C’è poi la derivazione dal cinese kim-iya, che vuol dire “succo per fare l’oro”.
Come avrete avuto modo di capire, l’alchimia fu un sistema di stampo esoterico, messo in atto e studiato in gran parte del mondo, che possiede un linguaggio vastissimo e che racchiude la chimica, la fisica, l’astrologia, la metallurgia, la medicina.
Ma qual era il fine ultimo di questa pratica? Per poterlo comprendere, bisogna mettersi in testa un concetto fondamentale: l’alchimia non si poneva come scopo la semplice trasmutazione della materia fine a sé stessa, ma mirava a un’evoluzione personale e spirituale connessa proprio alla materia.
Infatti, per quanto l’alchimia sia universalmente conosciuta come l’antenata della chimica odierna, questa affermazione risulta inesatta e imprecisa.
Sì, la chimica ha fondato la maggior parte delle sue scoperte sugli studi alchemici passati sopracitati, ma questi erano decisamente superiori, perché costituiti da componenti soprattutto filosofiche, senza che si limitassero al puro “ciò che vedo è ciò che tocco”.
A questo proposito, l’intellettuale, scrittore, filosofo ed esoterista francese Réné Guénon, nello scritto “La crisi del mondo moderno”, specificava: “A far nascere la chimica moderna non è stata questa alchimia, con la quale tale scienza non ha alcun rapporto: è stata una deformazione e deviazione di essa nel senso più rigoroso del termine, a cui dette luogo, forse a partire dal Medioevo, l’incomprensione di alcune persone, le quali, incapaci di penetrare il senso vero dei simboli, presero tutto alla lettera e credendo trattarsi solo di operazioni materiali si dettero ad un più o meno disordinato sperimentare. Proprio queste persone, chiamate ironicamente “soffiatori” e “bruciatori di carbone” dagli alchimisti veri, furono gli autentici precursori dei chimici attuali: ed è così che la scienza moderna si è costruita per mezzo di residui di scienze antiche, con materiali respinti da quest’ultime e abbandonati agli ignoranti e ai “profani”.”
Tornando agli alchimisti, il loro scopo era trasformare il piombo in oro, ovvero convertire un elemento negativo in un elemento positivo.
Ma non si trattava solo del piombo, tutti i metalli sarebbero potuti diventare oro.
Perché proprio questo metallo prezioso? Per denaro e potere? Niente di più sbagliato, non era la ricchezza ciò che faceva venire l’acquolina in bocca a questi studiosi.
Erano convinti che tutto l’universo stesse progredendo piano piano verso uno stato di perfezione e incorruttibilità. L’oro era la sostanza che più si avvicinava a questa idea di perfezione e si presumeva che, una volta arrivati al punto di plasmare la materia, l’essere umano avrebbe scoperto come sconfiggere le malattie e prolungare la vita.
Come si otteneva l’oro dal piombo? Re Mida, personaggio mitologico, non poteva di certo dare una mano, così gli alchimisti dovevano ricorrere a un altro stratagemma, un elemento per niente facile da ottenere: la famosa pietra filosofale.
La prima comparsa della pietra filosofale in forma scritta la si deve all’alchimista musulmano Jabir ibn Hayyan (721 d.C. – 765/822 d.C.). Egli, considerato il più grande alchimista medievale, studiò i quattro elementi naturali e li collegò alle quattro qualità base: caldo, freddo, secco e umido. Ipotizzò, quindi, che ogni metallo fosse composto dalla fusione di questi quattro principi e che l’oro fosse l’unico metallo perfetto, in completa armonia.
Ma quindi che cos’è questa pietra? Conosciuta anche come pietra dei filosofi o lapis philosophorum, essa sarebbe la sostanza catalizzatrice adatta per risanare la corruzione della materia.
Per capire meglio questa frase, ecco una brevissima lezione di filosofia neoplatonica: secondo questa corrente di pensiero, la molteplicità dell’universo risiedeva tutta nella concezione di unità, di Uno. Ciò, perché si deduceva che qualsiasi elemento presente in natura fosse composto dalla stessa sostanza aurea primordiale, nota anche come etere (dal latino aether) o quintessenza (dal greco antico pémpton stoichêion e dal latino medievale quinta essentia, letteralmente “quinto elemento”). Tale sostanza venne identificata da Aristotele come un quinto elemento, appunto, oltre ai quattro elementi naturali, cioè acqua, fuoco, terra e aria.
Secondo gli alchimisti, la quintessenza era l’elemento principale della pietra filosofale, una sorta di sostanza “da cui nasce la vita”.
Le applicazioni della pietra erano tre:
- Fornire l’elisir di lunga vita, una pozione in grado di donare l’immortalità, di far ringiovanire o di curare da ogni male.
- Donare l’onniscienza, quindi la conoscenza totale di passato, presente e futuro.
- Trasformare il metallo in oro.
Come dicevo, tuttavia, non era facile ottenere questa fantomatica pietra, dato che il procedimento per crearla sarebbe la sintetizzazione di due materie opposte, ovvero lo zolfo e il mercurio, secondo il concetto di sulphus et mercurius.
Il mercurio era associato all’aspetto passivo e lunare della quintessenza, mentre lo zolfo rappresentava il lato solare e attivo dello spirito.
Ed è qui che entra in gioco la simbologia alchemica che ho accennato a inizio articolo.
Gli alchimisti non potevano lasciare scoperto al pubblico un elenco di istruzioni sulla creazione della pietra filosofale! Così, si servivano di iconografie ben precise per descrivere elementi, passaggi e processi chimici e spirituali.
La sostanza necessaria era definita Grande Opera o Magnum Opus e non serviva solo per la realizzazione della pietra filosofale, ma rappresentava un vero e proprio percorso di evoluzione spirituale dell’alchimista.
Le fasi per ottenere la pietra filosofale hanno un numero variabile, che va dal tre al dodici (come i segni dello zodiaco), seguendo la numerologia (il significato magico dei numeri), ma non c’è dubbio sul fatto che gli stadi fondamentali siano quattro, ognuno scandito da passaggi di colore ben definiti.
- Nigredo: tradotto dal latino come “colore nero” o “nerezza”, anche in riferimento al già detto “terre nere” dell’Antico Egitto, è il primo stadio, dove tutti gli ingredienti alchemici devono entrare in putrefazione e decomposizione, macerandoli e cuocendoli fino all’ottenimento di una massa nera uniforme. Bisogna prima distruggere gli elementi, affinché si possa portarli a un ordine superiore, dal caos originario ha avuto origine l’intera creazione. Secondo la simbologia alchemica, la nigredo è rappresentata da un corvo o da un teschio.
- Albedo: la cosiddetta “bianchezza”, raffigurata da un cigno bianco, lava le impurità della nigredo attraverso un processo di distillazione, conferendo all’anima una vera e propria liberazione dal peso della fisicità e corporeità.
- Citrinitas: spesso associata all’albedo e conosciuta anche come xanthosis, è lo stadio di “ingiallimento”, la fase di combustione della materia e rappresentata dal Sole e dall’aquila.
- Rubedo: il “rossore”, l’ultimo stadio della Grande Opera, quello che culmina nella creazione della pietra filosofale e nella conversione dei metalli vili in oro, attraverso il processo chimico di sublimazione. È caratterizzata da diversi simboli, come la fenice, il pellicano, il re incoronato, la rosa rossa, l’uovo. La fenice nello specifico è l’incarnazione del dogma alchemico “nulla si crea, nulla si distrugge”.
In particolar modo, in alchimia, ci sono due simboli per eccellenza che fungono da (detta in parole più che profane) “riassunto”: l’ouroboros (il serpente o drago che si morde la coda) e l’androgino (o rebis, o ermafrodita).
Entrambi hanno più o meno lo stesso significato: l’unione tra spirito e materia, tra uomo e donna, tra Sole e Luna. L’ouroboros, comunque, rappresenta anche la ciclicità del tempo, il principio dell’”Uno in Tutto”.
Si può notare come il rebis sia di grande rilevanza nell’analisi di questa disciplina, considerato che si tratta della prima figura che compare all’interno dell’”Aurora consurgens”, un trattato diviso in due parti, scritto tra la metà del XIII secolo e la prima metà del XV.
Sfortunatamente non si conoscono i due autori, dato che l’evidente differenza stilistica tra le due parti fa pensare a due mani diverse.
Questo scritto è considerato una delle opere inerenti ai processi alchemici più rilevanti, insieme al “Rosarium Philosophorum” scritto dall’alchemico Arnaldo da Villanova nel XIII secolo, al “Commentarius” di Raimondo Lullo e al “Duodecim Claves philosophicæ” di Basilio Valentino.
Nell’”Aurora consurgens”, l’alchimia è definita come “scentia Dei” e la prima immagine che compare, come dicevo, è quella del rebis: un uomo e una donna fusi in un solo corpo e sorretti da un’aquila, in un’iconografia del tutto trinitaria (un rimando cristiano al corpo, all’anima e allo spirito).
Il corpo androgino rappresenta l’unione tra le due forze primigenie della materia, i due principi di base (appunto, maschio e femmina, Sole e Luna). Il rapace è la raffigurazione del mercurio-argento vivo, denominato spiritus, che penetra i due corpi contemporaneamente, attraverso il processo di fissazione delle componenti volatili della materia.
Il rebis è identificabile come coniunctio oppositorum, cioè come “contraddizione”, della Magnum Opus.
Una sua variante è la sigizia, letteralmente una “congiunzione”, un “allineamento”, dato il principio di unione tra Sole e Luna (l’eclissi è una sigizia).
Seguendo uno dei principali dogmi alchemici (spiegato anche in quel piccolo gioiellino di film intitolato “Necropolis”, un mockumentary del 2014) “Come in alto, così in basso”, vi è un parallelismo tra gli elementi cosmici e gli elementi naturali. Ecco, dunque, che i metalli, nella simbologia, vengono rappresentati attraverso gli astri: l’Oro è il Sole, l’argento è la Luna, il mercurio è il pianeta Mercurio (no, davvero?), il rame è Venere, il ferro è Marte, lo stagno è Giove e il piombo è Saturno.
Urano, Nettuno e Plutone non sono inclusi nell’elenco perché vennero scoperti solo a partire dal XVIII secolo.
Furono diversi i personaggi che si interessarono di alchimia. Tra loro spiccano Isaac Newton (che, anzi, elaborò più scritti sull’alchimia piuttosto che sulla fisica e sull’ottica), Ruggero Bacone (scienziato e teologo britannico 1214 – 1292), San Tommaso d’Aquino (filosofo e religioso italiano, 1224 – 1274), il Parmigianino (famosissimo pittore manierista nostrano, 1503 – 1540), persino il grande Caravaggio.
Un discorso a parte è quello di Nicolas Flamel. Vissuto a Parigi tra il 1330 e il 1418, egli è considerato uno dei più grandi alchimisti del Mondo Occidentale, ma in realtà gli scritti che gli vennero attribuiti dopo la sua morte, sono considerati apocrifi.
Secondo la leggenda, egli sarebbe riuscito a ottenere la pietra filosofale e l’elisir di lunga vita. Beh, Flamel è morto, mi sembra che questo elisir non abbia funzionato come avrebbe dovuto…
Esistono tantissime altre iconografie alchemiche, ma analizzarle tutte in un unico articolo sarebbe un’impresa praticamente impossibile. Così come è impossibile descrivere in un unico pezzo ciascun dettaglio o differenza tra l’alchimia occidentale, araba, cinese, perché, come ho già detto sopra, l’alchimia fu una disciplina studiata in quasi ogni parte del globo, seguendo, in ogni angolo, anche quella che era la cultura del popolo di turno.
Nell’alchimia cinese, per esempio, imprescindibile è il concetto di yin e yang. Inoltre, così come la chimica, anche la medicina tradizionale cinese deve la maggioranza dei suoi fondamenti all’alchimia.
Oppure, l’alchimia indiana si concentrava molto di più sul corpo, elevandolo a una sorta di laboratorio umano, per far sì che la pietra filosofale potesse diventare a tutti gli effetti una “pietra vivente”.
O addirittura, bisogna ringraziare gli studi alchemici islamici per le scoperte di svariate sostanze tramite i processi di distillazione, come l’acido muriatico, l’acido solforico, l’acido nitrico e persino l’uranio.
Comunque, tutte quante seguivano lo stesso proposito.
Forse ho commesso un piccolo errore di valutazione nell’elaborazione di questo pezzo, facendo intendere a voi lettori che la simbologia alchemica sia qualcosa di facilmente riscontrabile all’interno di un’opera d’arte, specialmente un dipinto.
Non è affatto così, poiché non esiste una “legenda” vera e propria di tutti i significati iconografici legati a questo mondo così misterioso.
Decodificare il messaggio intrinseco di un quadro, al di là di quello che l’occhio vede a primo impatto, non è un compito semplice e bisogna conoscerne in maniera approfondita l’artista, il periodo storico, le influenze subite da altri autori e via dicendo.
Ho citato, per esempio, il Parmigianino: per quanto lui fosse dedito allo studio dell’alchimia, sono da contare sulle dita di una mano i lavori in cui si possa osservare un’iconologia alchemica.
Stesso discorso vale per Caravaggio, in cui un riferimento agli stadi dell’alchimia sarebbe presente in una sola delle sue opere: “Giove, Nettuno e Plutone”, olio su soffitto intonacato del 1597 (casino di Villa Ludovisi, Roma). Questa pare essere l’unico murale eseguito dal Maestro, dato che egli prediligeva l’olio su tela. Giove, Nettuno e Plutone, in questo caso, non vengono rappresentati in qualità di pianeti, ma di divinità romane e sono tutti e tre autoritratti di Caravaggio stesso, che si servì di uno specchio per raffigurarsi completamente nudo. Le tre figure sono rappresentative di tre elementi naturali, ovvero l’aria (Giove), la terra (Plutone) e l’acqua (Nettuno). A loro volta, questi elementi rappresentano i tre stadi del processo alchemico, dunque lo stato gassoso, solido e liquido.
Da alcune interpretazioni, la totale nudità del personaggio di Plutone non sarebbe casuale, in quanto una tematica dell’opera poteva essere la combinazione di questi tre stadi alchemici come una forma di procreazione, dove il liquido seminale confluisce nel tutto.
Per quanto riguarda il campo della scrittura, Ruggero Bacone venne addirittura imprigionato nel 1278 con l’accusa di stregoneria e di diffusione di pratiche e ideologie della tradizione alchemica araba, dopo la divulgazione dei suoi trattati alchemici e scientifici: “Opus Majus”, “Opus Minus” e “Opus Tertium”.
Anche San Tommaso d’Aquino contribuì, come dimostra il libro “L’alchimia ovvero trattato della pietra filosofale”, dove sono contenuti alcuni suoi carteggi dediti alla preparazione della pietra.
Comunque sia, si commette spesso lo sbaglio di associare la figura dell’alchimista a quella di un mago, di una fattucchiera, di un individuo che fosse in grado di compiere prodigi indicibili. Ma questa è una visione quantomeno falsata e semplicistica dell’alchimista, inquinata anche da miti, leggende, da interpretazioni corrotte del loro operato.
Il vero alchimista era colui che ricercava l’onniscienza, il sapere, la sconfitta della morte e della malattia. Il vero alchimista non si limitava a processi fisici e chimici, ma a qualcosa di più profondo e personale, una vera e propria ascesa mentale.
Anche perché, come diceva lo scrittore statunitense William H. Gass (1924 – 2017): “I veri alchimisti non cambiano il piombo in oro; trasformano il mondo in parole.”.