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Propter saeva bella – A causa della guerra

Dobbiamo ammettere di trovarci in un momento decisamente critico della storia contemporanea. Vi ho già parlato in un mio articolo delle motivazioni che hanno portato Israele, Palestina e Striscia di Gaza a scontrarsi (potete leggerlo cliccando qui), ma dalla pubblicazione di quel pezzo è passato un po’ di tempo e la situazione non ha fatto altro che peggiorare. Anzi, sembra che Vladimir Putin e il presidente iraniano Masoud Pezeshkian stiano mettendo in piedi una vera e propria alleanza sia militare che politica contro Israele e contro qualsiasi suo alleato. (Ansa) Dall’incontro tra i due, pare che Russia e Iran condividano molti aspetti ideologici contro l’Occidente (non c’è da stupirsi, naturalmente, la scoperta dell’acqua calda).

Ma questo sodalizio è a dir poco inquietante. I conflitti Russia – Ucraina e Israele – Gaza, potevano risultare, all’apparenza, due atti di guerriglia “separati”. Invece, si sta scatenando un vespaio (vedi anche il Libano) che mette in allerta il mondo intero su una possibile catastrofica escalation.

Con questo mio articolo non voglio soffermarmi su congetture inerenti a quella che potrebbe essere una probabile Terza Guerra Mondiale.

Qualche giorno fa stavo illustrando la cronologia degli scontri bellici odierni a un ragazzo che aveva bisogno di una piccola introduzione alla geopolitica. La domanda che mi ha posto, per quanto possa sembrare candidamente ingenua, mi ha portata a riflettere e a fare alcune ricerche per approfondire al meglio il tema: perché l’Uomo continua a perpetrare battaglie? Perché non si ferma? Perché non possiamo vivere tutti in pace? Cosa ci spinge a dare vita sistematicamente a contrasti armati?

Vorrei cercare di rispondere, eviscerando cosa si scatena nella psiche dell’essere umano quando hanno luogo tali sanguinosi avvenimenti, collegando il tutto, come mio solito, all’arte. D’altronde, cosa c’è di più espressivo dell’arte per mettere in mostra l’orrore e la disperazione che mal si celano dietro a questi accadimenti?

Cominciamo con l’affermare che il binomio Uomo – Guerra, è una sorta di “evergreen”, passatemi il termine. Da che mondo è mondo, tutti i popoli della Terra si sono scontrati in nome di una qualche ideologia politica, religiosa, sociale, nonché di una smania di conquista di territori e risorse, fossero esse commerciali o strategiche.

Ma cosa succede nella testa delle persone con la chiamata alle armi?

A interessarsi particolarmente alla questione, fu Sigmund Freud (il nostro amato padre della psicanalisi che viene quasi sempre in soccorso quando si tratta di psicologia in generale), le cui riflessioni in merito si possono trovare in un suo breve scritto risalente al 1915, intitolato “Caducità” e in un saggio dello stesso anno recante il titolo “Considerazioni sulla guerra e sulla morte”. Tra l’altro, queste e ulteriori riflessioni maggiormente approfondite, sono annotate in “Riflessioni a due sulle sorti del mondo”, uno scritto nato dalla corrispondenza e dalle discussioni intrattenute da Sigmund Freud con Albert Einstein, intorno al 1934.

In questa documentazione, Freud afferma che la guerra sviluppa dentro di noi un sentimento ambivalente, creando un rapporto tra attività pulsionale e aggressività, generando una sorta di spaccatura nel nostro cervello.

Dapprima vi è un’esaltazione iniziale, ci si sente quasi eccitati ed entusiasti al suono del “primo cannone”, un entusiasmo legato anche al cosiddetto “amor patria”, dove si eleva la propria nazione a simbolo di orgoglio e, inconsciamente, di vittoria.

Ma andando avanti, prendendo piena coscienza di ciò che realmente accade, con notizie sempre più frequenti dal fronte, è inevitabile la comparsa di un profondo sentimento di angoscia e paura, che si fa strada nel cervello come un tarlo. E non si tratta “solo” della paura di morire o di veder morire i propri cari. E nemmeno si parla di una paura legata alla sconfitta del proprio Paese: il vero terrore che si sviluppa nella mente umana durante un conflitto è legato a una consapevolezza sull’illusione della civilizzazione umana.

Perché si arriva a comprendere, in fin dei conti, che basta un niente per far crollare quell’allegorico castello di carte che noi chiamiamo “civiltà”: lo Stato, a prescindere dal fine, decide che l’attacco è giustificato, la violenza diventa legittima e riemergono dunque le più primordiali pulsioni aggressive di cui l’Uomo dispone, mandando a gambe all’aria qualsiasi altra considerazione sociale o morale.

Uccidere non è più un crimine disumano e atroce, anzi, uccidere diventa uno strumento per la riuscita di una qualsivoglia operazione e l’Uomo si ritrova, dunque, in un limbo, completamente smarrito e distaccato da sé stesso. Un uomo, una donna o un bambino non sono più persone, ma diventano improvvisamente dei bersagli da abbattere, il nemico o degli strumenti da usare contro questo nemico.

E questa è l’unica spiegazione psicologica accettata in realtà dalla scienza, per poter definire per sommi capi le motivazioni che spingono l’Uomo ad autodistruggersi, anche se personalmente reputo che il movente principale sia un altro, ma di questo vi parlerò più sotto, perché prima vorrei soffermarmi sulle conseguenze mentali studiate post-belliche.

Ma una volta finito uno scontro, cosa sopraggiunge? Lo stress post-traumatico (PTSD), traducibile in un’incapacità da parte dell’individuo di riconoscere schemi sicuri nella vita quotidiana.

E non si tratta di qualcosa di puramente psicologico e basta, ma di un vero e proprio fattore neurobiologico: il circuito allerta – paura presente nel nostro cervello, dopo essere stati sottoposti a un considerevole numero di traumi, non funziona più come prima; l’amigdala è una struttura sottocorticale che si occupa di rilevare gli stimoli “di valore”, quindi prioritari, e innesca le azioni istintive; quando veniamo sottoposti a uno stimolo equivalente a una minaccia, l’amigdala si attiva, blocca la corteccia prefrontale (responsabile della pianificazione e del ragionamento logico) e permette il rilascio di adrenalina nel corpo, imponendo dunque una reazione istintiva alla minaccia, che può essere “scappa” o “attacca”.

In chi soffre di PTSD, purtroppo, molti stimoli che nel quotidiano non sarebbero allarmanti, lo diventano. Pensate, per esempio, al film “American Sniper” del 2014, con protagonista Bradley Cooper nei panni del famoso cecchino Chris Kyle: in una scena, dopo essere tornato dal fronte, Chris Kyle è a una festa con i suoi figli, con altri adulti e bambini, ma i terrori della guerra non lo lasciano in pace e in preda alla sindrome da stress post-traumatico, vedendo un cane attaccare per gioco uno dei pargoli, lo afferra per il collo con l’intento di ucciderlo, prima di essere fermato dai presenti.

La prima volta in cui si studiò a tutti gli effetti tale condizione fu successivamente alla Prima Guerra Mondiale. Qualunque psichiatra poteva notare gli strani comportamenti e atteggiamenti presi dai soldati che tornavano dal fronte: sguardo perso nel vuoto, nevrosi, crisi di pianto incontrollabili, perdite di memoria, urla, paralisi fisica e mancanza di reattività.

Nel 1923, l’antropologo statunitense Abram Kardiner e lo psichiatra americano Hebert Spiegel, misero in pratica un approccio completamente opposto alla cultura militarista che vigeva a quel tempo: anziché screditare, additare e sminuire i commilitoni dando loro delle “femminucce” (un “vero uomo”, all’epoca, non poteva permettersi crisi di panico o di pianto), si resero conto che sessioni di ipnosi e gruppi di condivisione e stress debriefing per elaborare insieme il trauma, erano decisamente più efficaci e costruttivi.

Questo dimostra che la guerra è a tutti gli effetti un trauma che il nostro corpo e la nostra psiche avvertono fortemente. La guerra è sempre una sconfitta, non importa l’esito, perché ci perseguita. I bersagli tornano a essere persone, persone che sono morte. Morte in nome di che cosa? Di quale grande causa?

Anche se, malauguratamente, dobbiamo ammettere, come sentenziavano i grandi filosofi del calibro di Machiavelli e Hobbes, che la guerra è naturale, mentre è la pace a essere artificiale. Nel diciottesimo capitolo de “Il Principe” (1513) di Machiavelli, attraverso la figura del centauro, egli afferma la duplice natura dell’Uomo, cioè che debba essere sia con la forza di un leone che con l’astuzia di una volpe, dunque i due modi di combattere: “L’uno con le leggi; l’altro con la forza”; mentre per Hobbes, nel “Leviatano” (1651), gli uomini posseggono un diritto naturale su ogni cosa, compresa la loro vita, e per garantire la propria sicurezza: “bellum omnium contra omnes” (“la guerra di tutti contro tutti”) perché lo stato di natura dell’Uomo e il suo istinto sono di guerra permanente e universale, “homo homini lupus” (“l’uomo è il lupo dell’uomo”), ogni uomo può essere lupo e quindi predatore degli altri uomini, condizionato anche e soprattutto da sopravvivenza e sopraffazione. E sforando nel pensiero di Immanuel Kant: “L’uomo moralmente per natura non è né buono né cattivo”, quindi un essere amorale. In un mio recente articolo dedicato al fenomeno del bullismo in perenne crescita (potete leggerlo cliccando qui), sfortunatamente, questi sommi, in fin dei conti, potrebbero avere ragione.

Anche l’arte ha dato il suo contributo. Infatti, risulta forse alquanto superfluo affermare che la guerra sia sempre stata uno dei temi al centro della scena nelle rappresentazioni artistiche, fin da quando venne a crearsi la prima civiltà umana della storia.

Tutti i popoli antichi hanno offerto ai posteri alcuni patrimoni culturali raffiguranti cruente battaglie.

Così come risulta probabilmente scontato dire che molte pellicole cinematografiche hanno preso ispirazione da questi fatti di sangue, creando delle opere filmiche incredibili, come il già citato “American Sniper”.

Giusto per menzionare alcune delle più significative: “Dunkirk” (di Christopher Nolan, 2017), “Platoon” (di Oliver Stone, 1986), “Full Metal Jacket” (di Stanley Kubrick, 1987), “Salvate il soldato Ryan” (di Steven Spielberg, 1998), “1917” (di George McKay e Dean-Charles Chapman, (2019), “Apocalypse Now” (di Francisa Ford Coppola, 1979), “La battaglia di Hacksaw Ridge” (di Mel Gibson, 2016), “The Covenant” (di Guy Ritchie, 2023, su cui ho fatto un reel che potete vedere cliccando qui), “Black Hawk Down” (di Ridley Scott, 2001, anche su questo ho elaborato un reel, che potete vedere cliccando qui).

Ma sono anche tante le pitture dell’arte contemporanea a essere state influenzate.

In primis, forse l’opera Maestra del tema della guerra, che ne espone le atrocità, è il maestoso “Guernica”, di Pablo Picasso, olio su tela di grandissime dimensioni (quasi 3,5m x 7,76m), del 1937, esposto al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid.

Il soggetto di questo quadro, considerato uno dei più grandi capolavori della storia, è il bombardamento terroristico avvenuto il 26 aprile del 1937, sulla città basca Guernica. L’attacco, operato dai tedeschi, era stato pianificato da Germania e Italia, in appoggio alle truppe nazionaliste del generale Francisco Franco.

La composizione è un esempio perfetto di Cubismo, movimento artistico nato in Francia agli inizi del XX secolo, e descrive in maniera più che limpida la sofferenza, la disperazione e anche lo stupore che scaturiscono durante eventi simili: c’è una donna che grida disperata al cielo, tenendo tra le mani il corpo del figlio; c’è un cadavere che viene calpestato a terra dai vari personaggi presenti; c’è un cavallo, simboleggiante la Libertà, trafitto da una spada; c’è una colomba, simbolo di Pace, che cade straziata a terra; c’è un toro, simbolo della follia della guerra; c’è una lampada sul soffitto, che appare come un occhio divino che osserva questo martirio straziante senza intervenire; e infine, c’è un piccolo fiore, tenuto tra le mani del cadavere in basso, unico minuscolo simbolo di una tenue speranza. I colori monocromatici rendono lo scenario ulteriormente drammatico, in un’atmosfera che sa di lutto.

Altro iconico capolavoro artistico è, senz’altro, “Il 3 maggio 1808” di Francisco Goya, olio su tela del 1814, esposto al Museo del Prado di Madrid.

Anche quest’opera inquadra un fatto storico: la resistenza delle truppe madrilene alle armate francesi, nel corso della guerra d’indipendenza spagnola. Il plotone d’esecuzione imbraccia i fucili e sta per sparare ai condannati sulla sinistra. Di questi due gruppi, solo dei secondi è reso noto il volto, mentre i primi vengono raffigurati di spalle.

Con questo punto di vista, Goya mostra come la guerra trasformi gli uomini in vere e proprie macchine di morte, non più esseri umani. Non a caso, il protagonista della scena, un bracciante con la tunica bianca che alza le braccia in segno di resa, ha uno sguardo terrorizzato e agonizzante.

E come non pensare a due disturbanti quadri di Salvador Dalì: “Il volto della guerra”, olio su tela del 1940 (Museo Boijmans Van Beuningen, Rotterdam), e “Morbida costruzione con fagioli bolliti: premonizione della guerra civile”, olio su tela del 1936 (Philadelphia Museum of Art, Filadelfia).

Il primo è un riferimento allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e al centro di esso vi è una testa umana mozzata in un paesaggio desertico e desolato. All’interno degli occhi e della bocca di questo corpo, ci sono dei teschi, che a loro volta contengono altri teschi, facendo intuire che il meccanismo della guerra è perpetuo, senza fine, così come le morti e i dolori che ne conseguono.

Il secondo è stato realizzato esattamente sei mesi prima dell’inizio della Guerra civile spagnola e la protagonista di quest’opera è una grottesca deformità, costituita da membra di corpi umani mal assemblate. La mostruosa creatura sovrasta dei fagioli bolliti e delle ossa, in un delirante atto di autostrangolamento. Questa è la follia della guerra.

Anche il mondo della street art è stato influenzato dalla tematica dei conflitti armati.

Il grande street artist Banksy ha realizzato nel 2007 un lavoro recante il titolo “Bambino che infila un fiore nella canna del fucile di un soldato”.

L’opera è stata creata su un muro nella città di Betlemme e così come il titolo, anche il soggetto è palese ed espressivo: un bambino, simbolo di innocenza, compie un gesto di pace.

E poi… la fotografia di guerra, il mezzo più immediato, toccante e vero per mettere in luce questa ferocia.

Come lo scatto di Robert Capa, fotografo ungherese morto in Indocina a causa di una mina antiuomo, “Morte di un miliziano lealista”, fatto durante la Guerra civile spagnola. Capa è riuscito a riprendere l’esatto momento in cui un soldato viene preso in pieno petto da un proiettile.

Egli è autore anche di un’altra foto eloquente, “Sbarco delle truppe americane a Omaha Beach”, nel 1944. Una scena dinamica e caotica dello sbarco in Normandia.

O ancora, la fotografa statunitense Margaret Bourke-White, con il suo scatto “Buchenwald”, che inquadra i prigionieri dell’omonimo campo di concentramento il giorno dopo la liberazione, con l’arrivo delle truppe alleate.

C’è anche il fotografo americano James Nachtwey, che è stato testimone del genocidio in Rwanda (di cui vi ho parlato in questo articolo), dimostrandocelo con una fotografia ritraente un ragazzo sfigurato da chissà quale arma.

E poi, quella che credo che sia la madre di tutte le fotografie di guerra, uno degli scatti più famosi della storia: “Bambini vietnamiti fuggono dal loro villaggio”, del 1972, realizzato dal fotografo vietnamita e vincitore del premio Pulitzer Nick Út, dove la protagonista è una fanciulla vietnamita che scappa in lacrime, completamente nuda e gravemente ustionata.

Ma dopo aver esposto tutto questo, la domanda principale rimane: perché l’Uomo continua a dare vita ad atti criminosi così violenti e tragici? Perché non dice basta?

Sovviene immediatamente la relazione con il denaro, ma si può rispondere con una semplice e conosciuta parola: il potere.

L’Uomo è sempre stato fautore di contrasti legati a qualsiasi causa: vuoi per la religione, vuoi per la crisi climatica, vuoi per le risorse di un altro Stato, vuoi per la corsa al petrolio e alle risorse naturali. Ma diciamoci la dura e cruda verità: sono tutte facciate, giustificazioni, scusanti.

Il “macromotivo”, che accomuna tutte le guerre che hanno avuto e continuano ad avere luogo, è sempre stato e sempre sarà il potere. L’Uomo ha sempre avuto sete di conquista e forse questa sete non si placherà mai.

Le guerre in nome della religione? Spacciate con intenti religiosi, alla fine si sono ridotte tutte a un banale assoggettamento di un popolo.

Colonizzazione? Sì, espandiamo i nostri confini commerciali, ma intanto trucidiamo la popolazione locale, così capiscono chi comanda.

Annessione di un territorio per fini politici o storici? Certo, è solo una “casualità” che quel territorio abbia insita una miniera d’oro di minerali preziosi, petrolio, risorse naturali e alimentari con cui possiamo arricchirci.

E questa voglia di arraffare, arraffare e arraffare va ben oltre qualsiasi riflessione sociale, si oltrepassa il concetto di umanità dal punto di vista morale e si finisce in una caratterizzazione umana dal punto di vista esclusivamente bellico e machiavellico.

Non a caso, vengono sfruttati persino gli infanti. Ogni essere umano, bambini compresi, diventano semplici burattini nelle mani di chi tira i fili.

O forse bisogna aspettare il prossimo passo evolutivo, uno sviluppo maggiore del cervello che permetta di comprendere che se c’è qualcosa che le guerre presenti e passate possono insegnarci, è proprio il modo per poter fare pace e non ripeterle mai più.

Senz’altro si può confidare in questo tenue bagliore di speranza, il famoso fiore di “Guernica”, per quanto sia riconducibile al concetto di utopia.

D’altronde, come diceva Margherita Hack (1922 – 2013): “Cerchiamo di vivere in pace, qualunque sia la nostra origine, la nostra fede, il colore della nostra pelle, la nostra lingua e le nostre tradizioni. Impariamo a tollerare e ad apprezzare le nostre differenze. Rigettiamo con forza ogni forma di violenza, di sopraffazione, la peggiore delle quali è la guerra.”

Scritto da Camilla Marino

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