Le festività, si sa, sono quelle occasioni durante l’anno in cui buona parte del mondo si sposta, prende un aereo e va da qualche parte, evade, intraprende un viaggio, breve o lungo che sia.
Questa volta, a dicembre, ho deciso di vagabondare on the road per la Francia. Start: Milano (mia città natale), passando per la Svizzera dove ho anche sostato, attraversando il San Gottardo per cambiare nazione (perché il traforo del Monte Bianco è rimasto chiuso fino a dopo la metà di dicembre) e raggiungendo poi la Germania al ritorno.
Vi racconterò le varie tappe di questo mio “pellegrinaggio” nei prossimi articoli, ma ora vorrei concentrarmi su un sito turistico in particolare da me visitato, che mi ha fatta riflettere su un tema singolare, forse scontato, ma che accomuna molti: l’attrazione per il macabro.
Intanto, collocazione geografica: ci troviamo a Parigi. Per coloro che hanno vissuto sotto una pietra, Parigi è la capitale della Francia. Conosco più che bene questa città, perché nell’arco dei miei 27 anni ci sono stata diverse volte, fin da quando ero piccola (meraviglioso Disneyland). Ma esplorarla adesso, a distanza di tempo, con occhi più maturi e consapevoli, posso dire che è stato come riscoprirla. E, riscoprendola, è scoppiato l’amore “a prima vista” per questa città. Forse perché nel XX secolo, è stata la capitale del mondo letterario (materia a me cara), il centro nevralgico di uno dei frammenti di storia più rilevanti dell’era moderna, la culla di tutte le avanguardie artistiche del Novecento.
Questa è la patria dell’arte, dei liberi pensatori, dei poeti maledetti. Passeggiando per le sue strade, è impossibile non immergersi in un’atmosfera magica e senza tempo.
Senza tempo perché Parigi, a differenza di molti altri luoghi nel mondo, non ha solo una personalità o una storia. Ha proprio un’anima, che si sente, che si vede e che si respira. E quell’anima grida “Liberté, Egalité et Fraternité”.
Vi parlerò meglio della splendida Parigi in seguito e quindi torniamo al posto specifico che vi stavo accennando poc’anzi.
Si tratta di una visita che spesso non viene pubblicizzata come merita, ma che rappresenta un tassello fondamentale nella vita della capitale francese, che si è guadagnato il primato di più grande necropoli del mondo: le Catacombe di Parigi.
Oggi sono loro le protagoniste di tale articolo, abbinate ad alcune considerazioni che mi sono posta mentre ammiravo affascinata quegli antri e quei cunicoli oscuri e quelle immobili ossa accumulate una sopra l’altra.
Anzi, è stata proprio la fascinazione che le Catacombe generano in centinaia e migliaia di visitatori ogni giorno: perché l’essere umano è così irrimediabilmente attratto dal macabro? Perché proviamo sempre una curiosità ai limiti del morboso (chi più, chi meno) quando si parla di accadimenti violenti o della Morte stessa? Cosa ci spinge a ricercare quasi costantemente emozioni adrenaliniche come il brivido, il terrore e la paura?
Cercherò di rispondere a tali quesiti dopo avervi introdotto al mondo dei tunnel sotterranei più inquietanti e allo stesso tempo “ammalianti” del globo, proponendovi infine i miei ormai consueti riferimenti artistici.
Innanzitutto, come si arriva alle Catacombe parigine? L’ingresso si trova in Place Denfert-Rochereau, nel XIV arrondissement, e ci si può arrivare comodamente con la linea 4 o la linea 6 della metro, fermata Denfert-Rocherau, appunto. Se preferite, il sito è raggiungibile anche tramite la RER B, una sorta di treno molto comodo che percorre tutta la città in superficie (la fermata è la stessa).
ATTENZIONE: per poterle visitare, occorre prenotare il biglietto in anticipo sul loro sito ufficiale (potete cliccare qui per accedervi), scegliendo la fascia oraria a voi più congeniale. Questo perché ogni gruppo può essere costituito, al massimo, da 200 visitatori alla volta, per una questione di sicurezza.
Dopo queste informazioni prettamente tecniche, parte la mia narrazione.
La domanda sorge spontanea: perché i parigini hanno sentito il bisogno di costruire una necropoli? Sarà per caso un segno del passaggio di popoli antichi?
Per rispondere a questo interrogativo, bisogna precisare che prima dell’avvento del cristianesimo, era prassi comune seppellire i morti nelle periferie cittadine. Solo con la nascita di una delle religioni più seguite della Terra, si optò per i riti funebri e le sepolture in luoghi consacrati, vicini alla chiesa.
In effetti, se pensiamo anche all’origine del termine stesso, “catacombe”, possiamo scoprire che deriva dal tardo latino catacumbae, il quale, a sua volta, è con tutta probabilità l’adattamento della locuzione greca κατά κύμβας, che significa “presso le grotte”.
Con questa parola, per l’appunto, si sono sempre designati i complessi di caverne, spesso sviluppati su più livelli, che venivano usati dai cristiani antichi come necropoli (luogo di sepoltura).
Nel X secolo, la popolazione di Parigi aumentò e, ovviamente, anche il numero di deceduti (erano tempi duri per la salute…). Con la crescita urbana, i cimiteri non avevano questo grande spazio di manovra e non potevano essere ingranditi ulteriormente. Ragion per cui divennero sempre più affollati.
La situazione stava cominciando a sfuggire di mano, dunque si decise di aprire un terreno centrale che fosse lontano dalle chiese, in modo da poterci sotterrare tutti coloro che non avevano abbastanza soldi da permettersi una tomba sul suolo consacrato.
La prima in assoluto a permettere l’avvio di questa pratica, fu la chiesa di San Opportune nel quartiere centrale di Halles. È qui che nasce il celebre Cimitero degli Innocenti, in francese Cimetière des Innocents (o anche Cimetère des Saints-Innocents), uno tra i più grandi campisanti di tutta Parigi.
Ma tale condizione migliorò le cose solo inizialmente. Il primo fattore di “disturbo”, per così dire, era la sempre maggiore ascesa demografica della città, che nel 1153 portò alla costruzione del mercato centrale proprio accanto al Cimitero degli Innocenti. Per la comunità, si trattava di una vicinanza di pessimo gusto, in quanto quel luogo era frequentato da prostitute, ladri d’organi e l’igiene era alquanto discutibile.
Per volere di re Filippo II, vennero erette delle mura alte tre metri lungo il perimetro del camposanto e vennero scavate diverse fosse comuni.
Si continuò per diverso tempo con il sistema delle tumulazioni di massa: quando il cimitero era pieno, ne veniva aperto un altro.
Ora, voi immaginate migliaia di corpi che mano a mano si ammassano nel sottosuolo. Cosa potrebbe mai andare storto?
Beh… tutto! Per far sì che i corpi si decomponessero più rapidamente, veniva usata la calce. Il rovescio della medaglia di questa tecnica, tuttavia, fu che tutte le sostanze di materia organica derivanti dalla putrefazione, inquinassero il sottosuolo e soprattutto i pozzi, la riserva d’acqua dei cittadini.
L’acqua che puzza e sa di morto, naturalmente, non piace a nessuno, oltre che a portare un quantitativo inimmaginabile di malattie.
Eppure, il clero perpetrò questo sistema sepolcrale, facendo del cimitero uno scempio, con le fosse traboccanti di cadaveri! Uno spettacolo veramente nauseabondo e raccapricciante, se ce lo figuriamo nella mente.
Solo quando il corpo era completamente decomposto e ne rimanevano solo le ossa, queste venivano spostate in un altro luogo, per far spazio al morto successivo.
Quest’ultimo modo di agire, durante la seconda metà del XVIII secolo, accese una lampadina.
Dovete sapere che, in realtà, Parigi disponeva già da tempo di una vecchia cava, da cui erano stati ricavati calce, gesso e argilla. Il tenente di polizia Alexandre Lenoir, diede l’idea di usufruire di questo spazio ormai inutilizzato, per trasferirci le ossa dei cimiteri.
Fu così che il 7 aprile 1786, dopo aver consacrato il luogo prescelto per lo spostamento (nello specifico, la porta a sud della città denominata Barrière d’Enfer) nacquero le Catacombe di Parigi.
Ci vollero diversi anni per completare il lavoro e fu solo nel 1810 che il supervisore dei lavori Louis-Étienne Héricart de Thury (politico e scienziato) scelse di trasformare quell’immenso sistema di caverne sepolcrali in un sito visitabile, alla pari di un mausoleo.
E infatti, si devono a lui la disposizione delle ossa e dei crani a mo’ di decorazione, nonché l’uso di lapidi e iscrizioni sacre e letterarie per completare l’opera.
E che opera… Dopo aver percorso una scala a chiocciola piuttosto lunga e stretta (si parla all’incirca di più di un centinaio di gradini), si arriva sottoterra, in quelli che furono i corridoi sfruttati dai lavoratori per trasportare le salme che giungevano dai pozzi in superficie.
Nel presente, è tutto illuminato dalla luce elettrica, dalle lampade situate lungo il percorso.
Ma pensate quanto potesse essere terrorizzante e ansiogeno camminare lungo quei passaggi dal basso soffitto, con le ossa tra le mani e i morti nascosti nel buio.
E prima di entrare ufficialmente nella mastodontica tomba, sul portale d’ingresso vi è un’iscrizione, che può essere considerata sia come un invito che come una minaccia: “Arrête! C’est ici l’empire de la mort”, che tradotto in italiano significa “Fermatevi! Questo è l’impero della morte”.
Di colpo, si ha come l’impressione di entrare in un altro mondo, che non fa parte del nostro spazio e del nostro tempo. Qui il silenzio è sacro, non solo per il rispetto dell’eterno riposo dei 6 milioni circa di ospiti di questa necropoli, ma anche perché si ha la sensazione che migliaia di entità eteree possano ascoltarti, sentirti, percepire la tua presenza attraverso la terra.
Solo una piccolissima porzione di Catacombe è aperta al pubblico. Il resto è inagibile, a meno che non si abbia conoscenza di un qualche ingresso nascosto e pericoloso. Vecchi tunnel abbandonati, gallerie della metro in disuso, buchi che conducono nel sottosuolo, soprattutto antichi passaggi nei sotterranei di svariati edifici.
Per una questione di sicurezza, l’accesso e l’esplorazione incontrollata delle Catacombe vennero messi al bando nel 1955, ma ciò non ferma i catafili, gli intrepidi, gli appassionati… e anche gli incoscienti.
Ma già perlustrando i corridoi fiocamente illuminati della zona visitatori, ogni tanto, ci si può imbattere in bivi misteriosi e cancelli serrati da catene e lucchetti che si affacciano su sinistri cunicoli dove la luce non arriva.
Potete provare quanto volete a bucare quell’oscurità con lo sguardo, ma non troverete altro che tenebre e un vago sentore di essere osservati da qualcosa che si cela nel buio.
Come stavo dicendo, per l’appunto, solo una frazione pari a 1,7 km è visitabile, ma la rete di gallerie si estende per circa 100 km (e anche oltre), con un’area pari a, più o meno, 11 mila metri quadrati.
Il primo sembra un tragitto piuttosto breve, vero? Eppure, là sotto, tra quelle ossa perfettamente posizionate, quei teschi che sembrano fissarti e le membra disposte in modo tale da comporre dei macabri disegni, il senso dell’orientamento e del tempo si dilatano così tanto da non esistere più. Emergendo, mi sono resa conto di quanto effettivamente fossi lontana dal punto di partenza.
Ovviamente, questo mio racconto farà pensare: quanta gente sarà scomparsa in quei tunnel?
Negli ultimi anni, precisamente nel 2017, due ragazzi di 16 e 17 anni erano entrati da un ingresso secondario nelle Catacombe, perdendosi e venendo ritrovati dopo solo tre giorni.
Ma esistono leggende e storie decisamente più inquietanti e occulte. Per esempio, alla fine degli anni ’90, un gruppo di catafili (termine italianizzato dall’inglese cataphiles, vale a dire gli esploratori urbani che si inoltrano illegalmente nelle catacombe parigine), ritrovò una videocamera in una delle stanze più oscurate del complesso.
Osservando le numerose immagini registrate, queste ritraevano quello che era molto probabilmente il suo proprietario in uno stato più che confusionale, sull’orlo della pazzia, mentre urlava percorrendo i tunnel. L’ultima immagine vedeva quell’uomo lasciar cadere la videocamera, mentre correva disperato e scomparire nel buio.
Ancora oggi, nessuno sa nulla di quell’uomo, neanche se sia uscito o meno dalle Catacombe. Forse è proprio lui, il suo spettro senza pace, che ci scruta con sguardo delirante dalle tenebre…
O forse è il fantasma di Philibert Aspairt. E chi è, mi chiederete voi? Era un semplice custode dell’ospedale Val de Grâce, che in un giorno della fine del Settecento decise di andare a prendere del liquore in cantina. Evidentemente, imboccò la porta sbagliata e si ritrovò a vagare nelle Catacombe parigine, smarrendosi. Continuò a cercare l’uscita fin quando la luce della candela non si esaurì. Si persero del tutto le sue tracce, fino a una decina di anni dopo, quando un gruppo di catafili ne ritrovò i resti, riconoscendo l’identità del corpo grazie al suo portachiavi. Il punto preciso in cui venne rinvenuto divenne la sua tomba ufficiale, con una lapide commemorativa che si può vedere ancora oggi. Si dice che il 3 novembre, probabilmente il giorno in cui è sceso nelle caverne senza più tornare, il suo spettro si aggiri nelle gallerie, in un tormento senza fine.
Tra l’altro, nel videogioco “Assasin’s Creed – Unity”, del 2014, si fa riferimento ad Aspairt durante le missioni degli omicidi misteriosi.
E se per caso vi trovaste là sotto a mezzanotte, potreste sentire i gemiti dei morti provenire dalle ossa, dai muri e dall’impenetrabile tenebrore.
Naturalmente, non sono solo queste le storie che circolano sulle Catacombe di Parigi. Ce ne sono tante altre. Mi ricordo il mio vivo interesse nei confronti di questo posto sin da quando ero piccola. Per la precisione, da quando mia madre mi aveva regalato un volume meraviglioso sui luoghi più infestati del globo (purtroppo, al momento, non ne rammento il titolo, devo scavare a fondo nella mia immensa libreria).
Racconti di ragazzi dispersi, di ombre che ti perseguitano, di gente mai più ritrovata.
E anche di centinaia di individui che hanno trovato la morte a causa dei crolli. Il suolo di Parigi è molto poroso e i tunnel delle Catacombe affondano nella terra fino a cinque piani, superando persino le linee della metro. Queste peculiarità rendono la costruzione dei palazzi (specificamente i grattacieli) decisamente rischiosa. Due volte, nel corso della storia, intere case sono crollate nel sottosuolo. Ragion per cui, in alcune zone della città, non è possibile realizzare edifici troppo elevati.
Se poi pensiamo alle personalità illustri che hanno trovato il loro eterno riposo laggiù…
Alcuni di voi ci avranno già pensato, ma effettivamente dobbiamo ricordare che tra quelle 6/7 milioni di persone trasportate nelle Catacombe, ci sono anche personaggi storicamente noti.
Come i rivoluzionari e politici Maximilien de Robespierre e Georges Jacques Danton. Ma anche le spoglie di alcuni scrittori giacciono tra questi cunicoli, come quelle di Jean de La Fontaine, Charles Perrault, François Rabelais. Tra i “VIP”, figura anche il chimico e biologo Antoine Laurent de Laivoisier e molto probabilmente anche il fisico, matematico e filosofo Blaise Pascal.
Una piccola curiosità è data dagli unici esseri viventi che popolano queste gallerie: i pesci, in un lago sotterraneo situato sotto al Teatro dell’Opera e rappresentato da Gaston Leroux nel suo intramontabile romanzo del 1909 “Il fantasma dell’Opera”.
Per quanto riguarda le voci che in passato circolavano sulla presenza di coccodrilli nelle fogne e nel sottosuolo parigino, non occorre dargli credito, in quanto fake news. Nemmeno i pipistrelli osano avventurarsi nella maggior parte di questi tunnel secolari, poiché troppo in profondità.
Ora, dopo questo mio racconto su questi passaggi sotterranei surreali, dove l’unico suono percepibile è lo scricchiolio della ghiaia e della terra sotto ai piedi e qualche inquietante sussurro, veniamo alle domande che mi sono posta guardando i teschi dritti negli occhi. Quegli occhi scomparsi già da secoli.
Le Catacombe di Parigi attirano centinaia di migliaia di turisti ogni anno. Certo, si tratta di un pezzo di storia fondamentale della capitale francese. Ma contemporaneamente, questa location attrae per la morbosa curiosità insita nell’essere umano.
Fateci caso: per quanto sia forse sconvolgente un pensiero simile, quando avviene qualche fatto violento, come un incidente d’auto, un incendio, il crollo di un ponte e via dicendo, siamo costantemente purtroppo portati alla ricerca inconscia del ferito o del corpo in mezzo ai rottami, alle fiamme, alle macerie.
Si cerca sempre il cadavere con un interesse a volte ai limiti dell’ossessivo e qualora non riuscissimo a soddisfarlo, sentiremmo, paradossalmente, una sorta di… “delusione”: una parola eccessiva e pesante per descrivere, ma che viene usata anche in psicologia perché non esiste un vero e proprio per definire in maniera appropriata questa emozione. Ma è giusto per rendere l’idea.
Quindi, di nuovo il quesito: perché l’essere umano è così attratto dagli eventi macabri e dall’horror?
Sto tralasciando il fatto che ognuno possa provare in maniera più o meno intensa questa sensazione, che può assumere anche sfumature piuttosto soggettive. Diverse persone, per esempio, non sono interessate ai film horror. E parlo di cinematografia perché è uno dei veicoli di comunicazioni più immediati ed evidenti per sottolineare certe inclinazioni sfuggevoli alla nostra comprensione.
Anche se mi tornano alla mente un paio di episodi legati alla mia infanzia, ma soprattutto al richiamo di cui sto parlando e che tra poco cercherò di spiegarvi.
Il primo: nella sala d’attesa del mio pediatra, appesa al muro, c’era una copia incorniciata della Pittura Nera di Goya “Saturno che divora i suoi figli” (vi ho parlato di questo grande artista in un reel che potete guardare cliccando qui). Credo che abbiate bene in mente il soggetto del dipinto in questione: una versione disumana e allucinata di Saturno mentre sbrana e fa a pezzi il corpicino pallido di uno dei suoi figli.
È una raffigurazione al confine del raccapricciante, ma che per un qualche motivo catalizzava perennemente l’attenzione non solo della sottoscritta, ma anche di tutti gli altri pargoli presenti nella stanza. Con un misto tra paura, inquietudine e sincera curiosità, avevamo tutti gli occhi incollati su quello spettacolo da incubo. Soggettivamente, il mio interesse nei confronti dell’opera è aumentato in età più avanzata, quando ho scoperto il significato in essa celato.
Il secondo episodio: da bambina avevo una meravigliosa antologia di racconti scritti da Susan Hill, che s’intitolava “Storie di fantasmi”. Amavo farmi leggere quelle storie da mia madre, che aveva (e ha ancora adesso) un modo di raccontare davvero immersivo e unico. E non sono di parte, perché tutte le mie amiche, quando le invitavo a casa per i nostri pigiama party durante l’inverno, le chiedevano di leggerci quel libro. Creavamo l’atmosfera giusta, aiutata dall’inverno milanese, dove il buio, al pomeriggio, giunge presto.
Ci chiudevamo in camera mia, tutte con le torce puntate sotto le nostre facce e mia mamma ci favoleggiava le novelle più oscure e terrorizzanti, mentre noi pendevamo dalle sue labbra!
E una volta, in una di queste storie, l’arrivo del fantasma di turno veniva preannunciato dal suono di una campanella. Eravamo presissime dal racconto, quando mia madre ci disse di fare una piccola pausa di pochi minuti, giusto il tempo di andare a girare l’arrosto in cucina. Quello che all’epoca non sapevamo, era che mia madre collezionava e ancora colleziona campanelle da tutto il mondo. E lei decise di farne tintinnare una, da un’altra stanza immersa nel buio, senza che noi la vedessimo. Non vi dico le espressioni sulle nostre facce! Eppure, volevamo che lei tornasse e continuasse a leggerci quello scritto! Quando lei rientrò in camera, poi, le dicemmo: “Ma hai sentito la campanella?!”, la risposta di mia madre, naturalmente, fu: “Quale campanella? Siete suggestionate.”. Eravamo di colpo terrorizzate ed eccitatissime al tempo stesso! Ma non è finita qui! Quando una del gruppo cominciò a sospettare che fosse tutto un suo piano per farci uno scherzetto, mia madre mandò un messaggio a mio padre, che stava rientrando dal lavoro, chiedendogli, una volta in casa, senza fare rumore e farsi sentire, e di suonare una delle campanelle.
Così successe! E noi corremmo in salotto tra urla e grida! Traumatizzate a vita, direte voi… E invece, il pigiama party seguente, pregammo mia madre di leggere ancora!
(Tutte le mamme furono avvisate dell’accaduto e ridendo furono d’accordo)
Innanzitutto, definiamo quell’emozione che si prova quando si spengono le luci in camera da letto per andare a dormire, dopo una serata a tema horror, per poi arrivare al perché ne siamo attratti, una digressione importante. Poiché per poter rispondere alle domande che vi ho sopra elencato, serve una piccola parentesi che possa spiegare, per sommi capi, che cosa sia la paura e come la gestiamo in determinati contesti.
Vi ricordate il capolavoro di Steven Spielberg del 1975, “Lo Squalo”? Ecco, sappiate che in quell’occasione, venne a crearsi, per la prima volta, un vero e proprio fenomeno di massa, conosciuto come “effetto squalo”. In poche parole, le persone furono così tanto toccate dalla visione del film che, per diverso tempo, furono spaventate dagli squali, dai bagni in mare e persino dall’andare in spiaggia!
Questo a causa del grande realismo (si tenga in conto l’anno di realizzazione) degli effetti speciali, che aveva reso la storia trasposta sullo schermo completamente plausibile e potenzialmente possibile.
Sia ben chiaro: “Lo Squalo” non è stato di certo il primo lungometraggio spaventoso della storia. Anzi, giusto un paio di anni prima usciva nelle sale “L’Esorcista”, che creò delle reazioni negli spettatori a dir poco passionali: gente che usciva atterrita dal cinema, gente che vomitava, che piangeva, che strillava. La cronaca e le guerre successive ci hanno poi fatti abituare, malauguratamente, a scene orrorifiche.
Ma la differenza tra l’uno e l’altro era semplice: uno si incentrava su eventi sovrannaturali, l’altro su fatti possibilmente reali.
Il sovrannaturale può spaventare e sicuramente inquieta, poiché è ormai risaputo che la paura atavica dell’Uomo, dall’alba dei tempi, è collegata a ciò che non conosce. Se non puoi spiegare qualcosa con dati scientifici o con razionalità alla mano, ecco che subentrano il dubbio, il terrore, il panico. Ne è una prova la caccia alle streghe, dove le povere donne che vennero arse sul rogo non erano affatto streghe (anche perché le vere streghe non si farebbero di certo beccare così facilmente… che razza di streghe sarebbero?), ma era più semplice additare quelle pratiche di erboristeria sconosciute come riti satanici ed esoterici.
Cionondimeno, il soprannaturale può turbare fino a un certo punto: puoi andare a letto con la paura di spegnere la luce, guardare il ripostiglio buio con sospetto, vagare da solo per casa con fare guardingo, ma un fantasma, un demone o un poltergeist non si imprimono nella memoria di chiunque allo stesso modo.
Ciò che veramente paralizza è, come avrete avuto modo di intuire, l’attendibilità di una situazione, quanto essa possa essere resa in maniera realistica.
Se ci fate caso, in effetti, molti dei film horror odierni basano le proprie trame su questo concetto, prediligendo più l’analisi di dinamiche sociali ed emotive quotidiane in chiave orrorifica. Ne è un esempio una pellicola che ho recensito non troppo tempo fa, “Speak No Evil” (cliccate qui per vedere la recensione). E anche il soprannaturale si sta mano a mano piegando a questa concezione, con l’inserimento di elementi più razionali nonostante la possessione di turno. Forse, in questo senso, “L’Esorcista” è stato il primo vero precursore di questa corrente, super innovativo all’epoca e ancora adesso uno dei migliori horror di tutti i tempi.
Eppure, anche questo concetto risulta contraddittorio in sé: avete mai pensato che, una volta scoperti tutti i dettagli inerenti alla natura di un’entità orrorifica che fino a quel momento ci appariva misteriosa, essa diventa meno spaventosa?
Perché l’abbiamo eviscerata, l’abbiamo concretizzata, l’abbiamo resa qualcosa di credibile e verosimile che possiamo teoricamente sconfiggere.
E al medesimo tempo, questa analisi, rende l’entità ancora più pericolosa.
È un cane che si morde la coda.
Tornando al punto principale di questa mia diatriba, a prescindere dalla tipologia di film che guardiamo: perché ne siamo irrimediabilmente affascinati, nonostante le emozioni negative che proviamo durante la visione?
E, conseguentemente: perché siamo così tanto attratti quando ciò che è fiction si trasforma in realtà davanti ai nostri occhi?
Il processo che si innesca in questi casi è quello di un vero e proprio coinvolgimento, un’eccitazione nei confronti di un argomento che viene classificato come un tabù: la morte.
L’essere umano, fin dalle sue origini, è sempre alla ricerca spasmodica e inconscia di emozioni forti. C’è chi fa sport estremi, chi pratica BDSM (che non è una pratica sessuale riducibile al semplice e banale “famolo strano”, ne parlerò in maniera più approfondita in un’altra occasione), chi visita i manicomi e le prigioni abbandonate, chi fa turismo estremo (ho scritto un articolo sul tema, potete cliccare qui per leggerlo), chi va ad abbracciare i leoni (con un minimo di buon senso) e c’è chi è appassionato di storie crime, di film del genere, di storie terribili e via dicendo.
Esiste anche il cosiddetto dark tourism o thanatourism (in italiano, turismo nero, turismo dell’orrore o tanaturismo), cioè quella forma di turismo che consiste nell’andare a visitare luoghi in cui si sono consumati omicidi, stragi o massacri, cimiteri, necropoli, insomma tutti quei posti che sono strettamente connessi alla morte e al macabro. E io posso dirmi una vera appassionata di dark tourism… Le Catacombe di Parigi sono una delle location più celebri, in questo senso, ma personalmente ho anche avuto modo di partecipare al tour dei fantasmi di Praga, il suo cimitero ebraico, ho nuotato nel Cenote sacro di Chichén Itzá (Messico, ve ne parlo qui, dove si compivano i sacrifici umani)…
Tra i vari siti famosi nell’ambito del turismo nero, figurano la nostra cara Pompei, l’isola di Poveglia, l’Ossario di Sedlec (Repubblica Ceca), l’Amsterdam Dungeon ecc.
Comprenderete, quindi, che “l’amore” per il macabro non è certamente un fenomeno singolo o unico.
C’è solo un piccolo “difettuccio” di sistema: siamo programmati, per così dire, per registrare con maggiore facilità le emozioni negative piuttosto che quelle positive. Pensiamo, per esempio, ai traumi dell’infanzia, che si ripercuotono irrimediabilmente sui nostri comportamenti nella vita adulta.
Ergo, un’esperienza traumatica avrà un effetto maggiore di un’esperienza positiva.
Durante la visione di un film horror, si attivano alcune parti specifiche del nostro cervello, a seconda del momento della pellicola.
Faccio un po’ di chiarezza: avete presente quella parte di film dove non sta accadendo niente, ma dove la musica (o l’assenza di sonoro) e l’ambientazione sono costruite in modo tale da tenervi sulle spine?
Bene, in quel caso, la nostra mente entra nella fase della cosiddetta “paura sostenuta”, quando percepisce di trovarsi in prossimità dello stimolo di pericolo. Dunque, siamo vigili e attenti.
Tra le varie aree del cervello coinvolte, c’è l’amigdala, una sorta di quartier generale delle emozioni, sia che esse derivino da stimolazioni reali o immaginarie, esterne (come la visione di un magnifico tramonto) o interne (come la proiezione di una fantasia o di un ricordo).
L’amigdala permette il rilascio di diversi ormoni e sono proprio questi ormoni a nascondere le risposte alle domande che sto ponendo oggi.
Durante la fase di “paura acuta”, ovvero quando vediamo il pericolo davanti a noi, le reazioni istintive del nostro corpo possono essere molteplici: chiudere gli occhi (equivalente a nascondersi), sobbalzi sulla poltrona, urlare di paura o persino fuggire dalla sala.
Queste sono reazioni neuronali fisiologiche che vengono definite come “reazioni di attacco o fuga” o anche “ipereccitazione”.
Ipereccitazione non è una parola coniata casualmente. Infatti, in situazioni simili, tra gli ormoni più rilevanti rilasciati dall’amigdala, figurano l’adrenalina e la dopamina, quest’ultima conosciuta anche volgarmente come “l’ormone del piacere”, poiché coinvolta nella gratificazione sessuale. Si tratta di ormoni che vengono rilasciati anche durante le attività sportive estreme.
Dunque, durante i film horror, noi proviamo un inconscio piacere, un’inconscia eccitazione nel tenere gli occhi incollati allo schermo. Quante volte avete provato la sensazione di “Mi fa paura, ma non riesco a distogliere lo sguardo”?
È proprio grazie all’adrenalina, alla dopamina e alle endorfine che vengono rilasciate dal cervello, che proviamo tale sensazione, una sensazione che nasconde un profondo benessere, una forte felicità, capace, paradossalmente, di ridurre lo stress, in favore di uno stato euforico.
Ciò, tuttavia, accade anche per il fatto che, con i film horror e thriller, non siamo altro che spettatori esterni, sappiamo di non essere realmente in pericolo e quindi ci godiamo lo spettacolo.
Quando, invece, assistiamo personalmente a qualcosa di terribile, vi sono anche altre implicazioni psicologiche, oltre alla semplice questione neurale e biologica.
Nelle piccole comunità, eventi come un incidente stradale o un crimine violento, la motivazione che spinge le persone a informarsi il più possibile sull’accaduto e a osservare con occhio analitico la scena, è quasi sempre una pura e semplice curiosità legata a frasi come: “Magari conosco la vittima, so chi è.”.
Ma quando si tratta di grandi città o di contesti a noi estranei, perché ci prodighiamo tanto a cercare il cadavere tra i rottami?
Ho chiesto al mio amico Gianluca Minucci, un esperto psicologo che potete seguire sulla sua pagina Instagram gianlucapsy, qualche delucidazione in più.
Come ho già detto sopra, Gianluca spiega che una delle ragioni principali, è la costante ricerca da parte dell’essere umano di emozioni forti e che le sensazioni negative attecchiscono più fortemente rispetto a quelle positive.
Inoltre, l’essere umano è, per Natura, una creatura curiosa. Gianluca, naturalmente, mi ha spiegato che non si tratta della curiosità pari a: “Chissà come si preparano i tortelli alla zucca?”. La nostra sete di “sapere” vuole rispondere a tutti i quesiti dell’universo, che comprendono persino i dettagli più macabri e truculenti di un dato evento, proprio perché connessi al tema della morte.
Un’altra spiegazione che mi ha fornito, è quella di una sorta di “rassicurazione”. Voglio sottolineare che questa serie di voli pindarici cerebrali che sto descrivendo avvengono in maniera quasi del tutto inconscia e che non vengono propriamente concretizzati in pensieri.
Dicevo, questa “rassicurazione” trova una perfetta descrizione nella frase: “Menomale che non è successo a me.”. Una sorta di mors tua vita mea, un “sadico” (passatemi il termine) piacere nel constatare che quanto è accaduto o stia accadendo non stia succedendo a noi, ma a qualcun altro. Anche in questo caso siamo degli spettatori esterni in una comfort zone.
Attenzione, non deve preoccupare questo sottile “sadismo”, poiché è una componente intrinseca della natura umana: il nostro inconscio è costellato di idee e fantasie anche cruente e atroci, che vengono puntualmente soddisfatte con la visione di un film horror. L’essere umano è un essere violento, lo dimostrano tutti i conflitti e le guerre che continuiamo a perpetrare gli uni contro gli altri, a discapito di soluzioni pacifiche.
Esiste persino una locuzione tedesca che nella nostra lingua è intraducibile: schadenfreude, ovvero “godimento delle disgrazie altrui”, il godimento che proviamo quando qualcuno che non sia nelle nostre grazie subisce, appunto, una disgrazia, che sia essa un semplice dispetto o un vero e proprio incidente.
Infatti, devo dirvi che sono rimasta abbastanza sorpresa e divertita quando la psicologa Thema Bryant ha affermato che apprezzare programmi televisivi true crime possa essere sintomo di un trauma subìto. La maggior parte di noi è traumatizzata, allora!
Però, questa idea, per quanto apparentemente buffa, non è affatto priva di fondamento. In effetti, qual è la paura atavica dell’Uomo per eccellenza? Cos’è che non possiamo sconfiggere e che arriverà inevitabilmente, presto o tardi che sia, in qualunque modo e in qualunque momento? E mi ripeto: la morte.
La morte è un argomento decisamente scomodo e tabù, abbiamo il timore di parlarne, qualcuno addirittura è in grado di toccarsi gli attributi per scaramanzia al solo nominarla. Non possiamo fermarla e non possiamo prevederla. La Signora Morte, a un certo punto, ti viene a prendere, senza certo spedirti una lettera di colore viola per avvisarti che morirai entro otto giorni, per citare quel capolavoro di José Saramago: il romanzo “Le intermittenze della morte”, di cui ho realizzato una recensione che potete vedere cliccando qui.
Nonostante ciò, sono sicura che quantomeno la maggior parte di noi, pensandoci, cerchi di evitarla con la frase: “Ma figurati se accade a me!”. Come se fossimo ridicolmente convinti di essere speciali o immortali. Naturalmente sappiamo di non esserlo…
Quando si palesa ai nostri occhi qualcosa che ci rimanda immediatamente alla Morte, in qualche modo, l’osservarlo intensamente ci porta a “esorcizzarla”, a scendere a patti con il fatto che esiste, che è reale e che, prima o poi, capiterà. Si auspica il più tardi possibile…
Ed è impossibile non accostare questa ambigua presenza al tema del macabro e all’attrazione che proviamo nei confronti di esso, proprio perché, come ho appena spiegato, è Lei, con la L maiuscola, una delle cause di questo allettamento.
Ed è Lei, alla fine, la vera protagonista di tutto questo discorso, colei che tira i fili da dietro la tenda.
Ma su di Lei, su tutti i pensieri filosofici e tutte le visioni psicologiche legate a essa, ve ne parlerò meglio in un altro momento, poiché ora potrei andare fuori tema e questo articolo si sta rivelando già piuttosto lungo.
La Morte è comunque una compagna di vita, è un’ombra che ci segue inesorabilmente e che risulta anche fonte di ispirazione per l’arte.
Ho già nominato “Le intermittenze della morte” di José Saramago, romanzo pubblicato nel 2005.
E sempre in campo letterario, potrei suggerirvi “Storia di una ladra di libri”, scritto da Brian Percival nel 2013, in cui è la Morte, poiché affascinata dagli esseri umani, a narrare la vita di una ragazzina durante la Seconda Guerra Mondiale.
Un classico senza tempo, poi, è “L’Antologia di Spoon River”, di Edgar Lee Masters, pubblicata tra il 1914 e il 1915: una raccolta di più di 200 poemi che non sono nient’altro che gli epitaffi incisi sulle lapidi del cimitero dell’immaginario paesino di Spoon River.
La Morte viene spesso e volentieri rappresentata sottoforma di scheletro o di teschio, come dimostra una delle prime miniature inerenti al tema del macabro, ovvero il codice in versi del trovatore Baudoin de Condé “Li troi mort et li troi vif”, letteralmente “I tre morti e i tre vivi”, redatto tra il 1240 e il 1280. In quest’opera, si narra di tre giovani che, durante una battuta di caccia, si imbattono in tre scheletri, che impersonano il cosiddetto “Memento mori”, cioè “Ricordati che devi morire”… Io avrei esclamato: “Sì, sì, mo’ me lo segno!”, in pieno “Non ci resta che piangere” Troisi docet.
Ma non è solo lo scheletro a rappresentare questa eterna entità. Anzi, questa iconografia si è per così dire ufficializzata solo nel Cinquecento, dopo la diffusione del “Trionfo della Morte”, un tema diffusosi antecedentemente nel Trecento e che conta circa 300 opere.
In realtà, una delle primissime raffigurazioni cristiane, l’affresco di Buffalmacco del Camposanto di Pisa, la ritrae come una donna con ali di pipistrello, che impugna arco, frecce e falce, mentre con una mano trasporta una bara.
E per tornare brevemente sulle Catacombe di Parigi, posso consigliarvi un buon film horror in stile mockumentary del 2014: “Necropolis – La città dei morti” (il titolo originale è “As Above, So Below”, traducibile in italiano con “Come in alto, così in basso”): Scarlett è una giovane professoressa di archeologia urbana che sta cercando la pietra filosofale di Nicolas Flamel e per trovarla, si reca nelle catacombe con un gruppo di catafili. Piccola curiosità: questo è stato il primo film nella storia del cinema a ricevere un’autorizzazione speciale per avviare le riprese nella necropoli francese.
Non mi metterò a elencare tutte le opere in pittura che rendono visivamente uno scenario orrorifico perché sono davvero molte. Pensate solo alle pitture rupestri raffiguranti le nostre scene di caccia e vi renderete conto da quanto tempo questo argomento ci segue come un’ombra, ma ne ricorderò solo alcune più famose.
Come “Ambasciatori”, olio su tela di Hans Holbein il Giovane, del 1533. Protagonisti della scena sono, per l’appunto, i due ambasciatori Jean de Dinteville e Georges de Salve. Il doppio ritratto ce li mostra giovani, in forma smagliante, con vestiti sontuosi che ricordano un aspetto quasi nobiliare. Il modo in cui posano davanti al pittore esprime forte sicurezza, disinvoltura e una mondanità coadiuvata dalla presenza di una serie di oggetti specifici e accuratamente posizionati. Ciò che cattura l’occhio in seconda battuta è uno strano corpo ai loro piedi. Non si capisce immediatamente cosa sia, ma disturba la visione. Quell’elemento, non è altro che un teschio in vanitas, vale a dire un teschio che funge da Memento mori. Lo strano e geniale modo in cui è stato rappresentato prende il nome di anamorfosi, cioè una deformazione ottica che permette di vedere chiaramente un oggetto solo se osservato da un’angolazione ben precisa.
Altro dipinto celebre è “Et in Arcadia Ego”, olio su tela realizzato dal Guercino tra il 1618 e il 1622. Due pastori incontrano un teschio in un boschetto. Anche in questo caso, il teschio funge da vanitas, in quanto posato su una pietra recante l’incisione “Et in Arcadia Ego”. Questa iscrizione può essere traducibile come “Sono anche in Arcadia”, trattasi di una regione della Grecia considerata idilliaca e perfetta. Insomma, ci vuole ricordare che la Morte è ovunque, persino nei luoghi più belli.
E in ultimo, posso consigliarvi di visitare, a Milano, il Santuario della Chiesa di San Bernardino alle Ossa, un celebre ossario contenente i resti dei pazienti dell’antico ospedale locale.
Ve ne parlo più nel dettaglio in questo reel.
Per questo non dobbiamo stupirci, rammaricarci o vergognarci che tali discorsi ci affascinino e ci attraggano. L’arte lo dimostra.
È, in fin dei conti, il nostro semplice e forse banale modo di cercare di comprendere la Morte, di parlarci, di litigarci e magari, paradossalmente, farci pace.
Ci porta a renderci conto di quanto la vita sia breve, è un rimando, è un monito che cerchiamo costantemente di auto indurci.
D’altronde, come dice lo scrittore brasiliano Paulo Coelho: “La consapevolezza della morte ci incoraggia a vivere.”