Negli USA, Tik Tok è in stand by da qualche settimana. Il mio scopo con questo articolo non è tanto dilungarmi sulle vicissitudini politiche e burocratiche della vicenda che già conosciamo a menadito, perché tanto scritta in miriadi di pagine di giornali, quanto a quello che è il vero aspetto dietro a tale questione, evidenziando che la quarta piattaforma più frequentata al mondo, sia in realtà uno strumento di potenziale plagio, da far nascere il dibattito sull’attuazione di una nuova guerra cognitiva.
Non si tratta di una semplice compravendita, di titoli o di quote, tant’è vero che gli Stati Uniti non sono gli unici al mondo ad aver bandito Tik Tok. Nella lista del blocco figurano anche il Canada e alcuni Paesi dell’Unione Europea, compresi la Danimarca e il Belgio.
Giusto per fare un minimo di chiarezza, la ragione ufficiale per cui il social era stato oscurato è legata a una legge approvata dalla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti e controfirmata dall’ex capo di Stato Joe Biden: ByteDance, vale a dire la società cinese che controlla il social, avrebbe dovuto rinunciare al possesso dell’app e venderla ad acquirenti statunitensi, pena il banno totale di Tik Tok dagli USA.
Il tempo a disposizione per fare ciò è scaduto, ecco perché a gennaio è andato in blocco.
Eppure, tra i possibili compratori, smentito il possibile acquisto da parte di Elon Musk sul Time l’8 febbraio 2025, quello che probabilmente spinge maggiormente per l’acquisizione del social, è il motore di ricerca basato su chatbot e intelligenza artificiale generativa Perplexity AI, fondato dall’ingegnere Aravind Srinivas, che concorre contro Meta e OpenAI.


Trump ha cominciato ufficialmente il suo mandato il 20 gennaio 2025 e pare che il nuovamente eletto Presidente voglia salvare la piattaforma a tutti i costi: ha avviato così una proroga di 90 giorni.
Gli esperti temono per la salvaguardia dei dati degli utenti, in quanto il server che ne tiene memoria si trova nella Cina continentale e il governo cinese potrebbe avere accesso non solo all’algoritmo dell’app, ma anche a questi dati, sfruttandoli per diffondere contenuti di propaganda.
Questa serie di avvenimenti, più il fatto che Trump voglia effettivamente salvare Tik Tok poiché, a detta sua, gli sia stato molto utile durante le elezioni, mi hanno portata a riflettere, quindi a quanto siamo influenzabili dai social nei nostri processi decisionali. Tik Tok, dacché si trattava di una piattaforma che mostrava balletti “idioti” e shorts demenziali, è poi diventata anche un mezzo di condivisione immediato per contenuti di maggior spessore. Da ricette e piatti in cucina, passando per lezioni di lingua e consigli di difesa personale, arrivando poi a video inerenti a contesti sociali e politici. Ed è in questo quadro che si aprono i confronti più disparati, che si creano le opinioni più bizzarre da parte dell’utenza. Tra poco spiegherò il perché.

Stiamo passando sempre più tempo sui social network ed è ormai assodato che questi facciano parte della vita quotidiana di ognuno di noi, chi più chi meno: i social, dunque, possono essere considerati come un nuovo strumento di propaganda? Quanto possono condizionare la nostra psiche i loro contenuti? Ci stanno facendo il lavaggio del cervello? E che cosa sono le guerre cognitive e cosa hanno a che fare con Tik Tok?
Vorrei provare a rispondere a queste domande con un excursus che culminerà, come mio solito, nei miei riferimenti artistici e culturali.

Per poter entrare nel vivo dell’argomentazione, è d’uopo delineare il significato di guerra cognitiva che implica, a sua volta, una spiegazione del concetto di guerra ibrida.
E si parte con un passo piuttosto incerto, poiché non esiste una definizione chiara, precisa e ben marcata di guerra ibrida.
Si può dire, però, che essa non sia un conflitto convenzionale, in quanto fusione di tutta una serie di caratteristiche consuete e non. In quest’ultima categoria rientrano le guerre politiche, economiche, psicologiche, nonché altri mezzi di incidenza sul popolo, come le interferenze nei processi elettorali, la disinformazione e le fake news.
Già a questo punto, con queste due paroline magiche, si sarà accesa una lampadina.
Passiamo ora a comprendere cosa siano le guerre cognitive: trattasi di un tipo di guerra ibrida, il cui operato fa leva su continui attacchi informativi e operazioni di natura psicologica nei confronti della popolazione, nella maggior parte dei casi, ovviamente al giorno d’oggi, attraverso gli immancabili social network.

Se vivessimo in un mondo ideale e utopico, questi verrebbero usati solo ed esclusivamente come mezzo di comunicazione per la verità, poiché sappiamo tutti che i social media sono il veicolo d’informazione più veloce di cui disponiamo, più del buon vecchio cartaceo o della televisione. Anzi, qualsiasi testata seria sa benissimo che l’iscrizione a Instagram, X e compagnia bella, è quasi d’obbligo per la visibilità.
Eppure, la homepage di un qualunque social che ci appare ogni giorno, non è piena solo di curiosità, di riflessioni concrete e di verità, ma anche di amenità e di non sempre velata ignoranza.
Umberto Eco, buon’anima (ho studiato in università sui suoi tomi), diceva: “I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”.
Ed è quello che in parte sta succedendo. Questa frase, nel contesto più generale del suo discorso, non era comunque demonizzante.

In un’era di polarizzazione e massima diffusione delle informazioni, risultiamo più disinformati che mai, dove i bias cognitivi svolgono una funzione chiave. Con bias mi riferisco alla distorsione cognitiva che ognuno di noi crea in maniera soggettiva, senza corrispondere necessariamente alla realtà. Una nuova interpretazione che se, appunto, influenzata, può indurre a nuovi costrutti, ideologie o giudizi errati.
I social non sono solo uno specchio di una società globale sempre più confusa, ma oltremodo di come la disinformazione e l’analfabetismo funzionale, siano uno strumento più che sfruttato per la propaganda.


Una disinformazione e un analfabetismo funzionale coadiuvati da una massa di contenuti sempre più demenziali e dediti a soddisfare la natura dell’algoritmo, specialmente con Tik Tok.
Occorre fare una precisazione psicologica prima di concentrarmi sull’esposizione di questo punto.
È risaputo che i social siano stati elaborati in modo tale da creare dipendenza, alla pari di una qualsiasi droga. I continui feedback, lo scrollare la homepage in maniera quasi compulsiva, soddisfano il nostro bisogno di socialità sfruttando la iper-connettività, che a sua volta stimola il sistema di ricompensa del nostro cervello, mandandolo letteralmente in overdrive, in surriscaldamento.

I nostri neuroni vengono investiti da reel e post ricchi di informazioni di ogni tipo, da quelle utili a quelle più che trascurabili, come le challenge. È una combo all’apparenza scontata, un po’ come accade in tv. Si alternano i programmi di cultura a quelli trash. Ma quando si parla di social network e degli input che riceviamo in modo effettivamente costante, quotidiano e anche aggressivo, questo insieme appare devastante.
Da una parte abbiamo video frivoli che inebetiscono il cervello, dall’altra una sorta di cultura “fast food”: tematiche importanti con esposizione veloce e immediata, spesso non approfondita come dovrebbe essere.
Quello che può essere un interessante mezzo di apprendimento e di socializzazione (se sfruttato nella giusta maniera), in realtà si è rivelato un dispositivo di annientamento individuale che intontisce le masse.

Spesso vengono ingaggiati degli influencer per produrre video di argomenti che dovrebbero invece essere affrontati da veri esperti del settore. Il risultato è una comunicazione mal gestita, monca e improvvisata per un pubblico che non è pronto ad apprendere subitamente.
È un terreno più che fertile per la disinformazione e per chiunque voglia mascherare il proprio proselitismo.
Potrebbe sembrare “complottista” (termine coniato spesso da cori non-pensanti) ciò che sto dicendo, ma in effetti è ciò che capita, soprattutto in alcune zone del mondo, come la Cina, appunto, dove è noto che l’algoritmo di Tik Tok propone sistematicamente contenuti che non solo sottolineino quanto le attività culturali, le iniziative scolastiche e via dicendo, siano cerebralmente stimolanti, ma che concordino con la visione del partito politico vigente.


Nei Paesi Occidentali, invece, è il trionfo dei prank, delle challenge, dei brevi sketch comici, per far stagnare e distrarre il pensiero da altro.
Inoltre, come ben sappiamo, l’algoritmo tiene conto di tutte le nostre attività e dei nostri dati. Ogni like, commento e condivisione, comprese quelle esterne all’app (non a caso, viene richiesto più volte l’accesso ai contatti della rubrica telefonica) viene schedato, segnato, ricordato.
Ciò che guardiamo e condividiamo con più regolarità ci viene proposto con una maggiore frequenza.
Ecco dunque che si verifica sia un’informazione “di parte”, che puramente parziale e incompleta: un loop.
Facciamo un esempio pratico: se mettiamo like a un video inerente a una serie tv, in cui vi sono battute di natura sociale o politica di un certo tipo, l’algoritmo ci fornirà post e reel riguardanti non solamente quella serie tv o altre, ma anche il partito a essa correlato.

Tutto questo grande giro di parole (che per alcuni, forse, potrà sembrare “la scoperta dell’acqua calda”), è propedeutico a fornirvi il quadro generale e mi funge da trampolino di lancio per esplicarvi il perché tutto questo possa essere catalogabile come una nuova frontiera della guerra cognitiva.


Vi ho già introdotto a questa definizione, ma perché l’aggettivo “nuova”?
Partiamo con l’evidenziare che la locuzione guerra cognitiva è stata generata effettivamente di recente, per la precisione dal generale della Unitede State Air Force (USAF) David Goldfein, nel 2017.
Nonostante questo, a dire il vero, è sin dai tempi della Seconda Guerra Mondiale e in particolare durante la Guerra Fredda, che le forze militari si sono interessate allo studio della mente e della psiche, naturalmente con il fine di sfruttarle come strumento, se non come arma, in campo bellico.

Ne sono una prova il famigerato Progetto MKULTRA e i candidati manciuriani, ovvero persone che compiono atti criminosi (omicidio compreso) mentre sono ipnotizzati e sotto controllo mentale, quindi non consci delle loro azioni.
Per chi non sapesse cosa fosse il Progetto MKULTRA, che prese forma nel 1953 e fu interrotto nel 1973, è stato il più vasto programma di ricerca sulla mente mai condotto, con le più grandi violazioni del codice di Norimberga sulla sperimentazione umana e biologica, prendendo tanti spunti dagli studi nazisti.


Studi che partivano tutti da un tedesco considerato il Mengele della mente: Kurt Frierdich Plötner. I campi di concentramento erano il suo laboratorio di sperimentazione sul controllo della mente umana, obiettivo condiviso dalla Società Kaiser Wilhelm per l’Avanzamento delle Scienze e da Heinrich Himmler.
Fu Plötner a cercare di creare i primi candidati manciuriani e le sue ricerche risultarono così “pionieristiche” che gli Stati Uniti non se lo lasciarono scappare: lo “protessero” dal processo di Norimberga e lo trasferirono negli USA, dove gli fu data carta bianca nel predecessore del Progetto MKULTRA, vale a dire il Progetto BLUEBIRD.



Se volete sapere qualcosa in più sul Progetto MKULTRA e BLUEBIRD, potete leggere l’articolo che ho scritto in merito cliccando qui. Inoltre, piccolo consiglio cinematografico e letterario, nel 2004 è stato distribuito il film diretto da Jonathan Demme, con Denzel Washington e Meryl Streep, “The Manchurian Candidate”, basato sull’omonimo romanzo del 1959 di Richard Condon. A sua volta, questo film è il remake di un’altra pellicola, uscita in sala nel 1962 per la regia di John Frankenhmeier, che nel Bel Paese è conosciuta con il titolo “Va’ e uccidi”.


Tornando a noi, non c’è mai stato uno stop a questa sequela di test, ovviamente da parte di altri: nel 2013, sotto il mandato di Barack Obama, il governo americano diede il via alla Brain Initiative (Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies), un programma volto all’analisi della mente e allo studio delle guerre cognitive. I campi di ricerca di questo progetto, partito con un investimento di oltre cento milioni di dollari e contributi privati, sono molteplici: neurobiologia, processi neuronali, neuroscienze delle emozioni e computazionali, scienze del comportamento, interfacce neurali e intelligenza artificiale. Tutti con lo scopo comune e “sempreverde” di modificare il comportamento di un individuo e di conseguenza delle masse.
Brain Initiative è andata avanti e perdura ancora oggi, dopo essere entrata nella seconda fase nel 2020, consistente di tutti gli aggiornamenti legati alle nuove scoperte tecnologiche e scientifiche degli ultimi anni. Dovrebbe chiudere i battenti nell’anno corrente 2025… Vedremo…


Avrete ormai capito che il modo più semplice e veloce per condizionare il popolo è attraverso i social network e il continuo pendolare tra post verità, mezze verità e fake news. E questo equilibrio precario porta alla super citata disinformazione, dove tutti sono esperti di tutto e niente. Tutti sono di colpo medici, ingegneri, professori, eruditi di geopolitica, oratori filosofici d’eccezione, anche avendo solo la terza elementare…


Per fornirvi un ulteriore spunto di riflessione su quanto questa ignoranza dilagante (ho scritto un articolo più approfondito sul tema, che potete leggere cliccando qui) sia utile alle campagne militari e politiche, in Russia, il termine dezinformatsiya (disinformazione, appunto) è strettamente connesso alla cosiddetta maskirovka.
Quest’ultima, traducibile in italiano come “mimetizzazione”, è quella branca bellica che consiste nell’inganno del nemico e nella conservazione dei segreti di Stato. Ciò è ottenibile, come ho detto più volte in questo articolo, grazie alla dezinformatsiya.


A quanto pare, la Russia si servirebbe delle mezze verità e delle false informazioni sui social per manipolare l’opinione pubblica, tramite atti di propaganda.
Queste azioni si sono rese evidenti con il conflitto ucraino: se infatti, prima della guerra, i contenuti forniti dalle piattaforme come Tik Tok erano di natura prettamente folkloristica, con l’avvicinarsi dello scontro, questi si sono trasmutati in una campagna di informazione che mostrava quanto la NATO stesse “invadendo” e “accerchiando” la Russia, sottolineando le incompetenze dell’Unione Europea e del rinnovo del nazismo in Ucraina.
Ovviamente, con queste righe, non voglio assolutamente orientare e alterare la visione dei lettori sulla guerra tra questi due Stati. Era solo per fornirvi un esempio pratico.


Insomma, i social, in un modo tutto loro, esercitano pressione sulla nostra vita, cambiando la nostra percezione del mondo.
E tale trasmutazione coinvolge tutti i campi della quotidianità, dalla politica al bellico, dalla psicologia alle relazioni sociali, passando addirittura per l’arte.
In che modo, direte voi? Vi siete mai fermati a pensare come fosse visitare una mostra d’arte nell’era antecedente all’avvento dei social media, specialmente se si trattava della prima volta che si metteva piede in un museo o in una galleria?
Si entrava, si camminava lungo quei corridoi e quelle stanze con rapimento e ci si soffermava davanti alla maestosità di una particolare opera figurativa. Immaginate che, fino a quel momento, aveste solo sentito parlare di quel quadro, di quella fotografia o di quella statua e che ora si mostrava al vostro sguardo in tutta la sua bellezza e magnificenza, concretamente.
Oggi non è più così.

Se vi dico “Guernica”, capolavoro del pittore Pablo Picasso conservato presso il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, un numero considerevole di voi saprà già quale sia il suo aspetto.
Non solo perché Google ci offre un archivio che definire vasto sarebbe un eufemismo, ma perché le pagine e i profili di musei, gallerie, artisti e arte in generale, me compresa, forniscono continue immagini di migliaia di lavori, corredate di dettagli e analisi.
In poche parole, il primo impatto visivo avviene attraverso lo schermo di uno smartphone, di un tablet o di un computer e distorce l’esperienza, le emozioni, determinando e impressionando le nostre aspettative.

Quali aspettative? Se ci viene messo davanti agli occhi un dipinto famoso per la sua grandezza, ci aspetteremo, dal vivo, di trovarci di fronte qualcosa di mastodontico; se ci vengono spiegati formidabili giochi di luce o uno studio anatomico senza precedenti, potremmo rimanere paradossalmente “delusi” dalla realtà.
Non solo: ormai, con i cellulari che sono diventati un’estensione del nostro corpo, siamo tutti “fotografi provetti”, intenti più a rendere noto che “abbiamo visto”, che eravamo presenti.
Non siamo concentrati sull’assimilare il quadro, la scultura o altro, ma sul fotografarla e pubblicarla, condividerla, far sapere al mondo che, appunto, “abbiamo visto”. Ci mettiamo in posa, ci preoccupiamo di fare bei video, di scansare le persone per non riprenderle… Ciò si traduce in una comprensione parziale dell’opera, in un’immersione psicologica e spirituale non completa, ma superficiale, riducendo l’arte a un bene di consumo.
Certo, la diffusione massiccia dell’arte sui social può assolutamente portare più conoscenza e istruzione, ma il rovescio della medaglia è la perdita o la “scontatezza” dell’essenza stessa dell’arte.
Non tutto è perduto, tuttavia: la condivisione porta anche alla scoperta di nuovi artisti, di persone sconosciute il cui talento e la cui carriera sono stati valorizzati proprio dai social, che li pongono sotto gli occhi di bue della community.
Ci sarebbe da intraprendere un discorso sul binomio arte – tecnologia, ma è troppo ampio da proporre in questa sede e lo farò in futuro.

In conclusione: dobbiamo far scattare l’allarme generale? I potenti ci controllano? Siamo noi i nuovi candidati manciuriani?
Non è il momento di farsi prendere dal panico, no di certo. Tutt’al più, avere in mano tutte queste informazioni ci offre una maggiore consapevolezza di ciò che accade e di ciò che potrebbe peggiorare o anche migliorare.


Affrontiamo ogni giorno delle hybrid warfare (guerre ibride) senza accorgercene, da tantissimo tempo. Lo diceva già Jim Morrison: “Chi controlla i media, controlla le menti.”.