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Il countdown del pianeta Terra

Considerando la realtà, ovvero che il mondo perde 10 milioni di ettari di foresta ogni anno a causa della deforestazione (più o meno la grandezza dell’Islanda), o che secondo un report delle Nazioni Unite un milione di specie animali e vegetali sono a rischio di estinzione, oppure che intere barriere coralline vengono invase dalla plastica, o ancora, che la pesca eccessiva non controllata sta esaurendo la fauna ittica, e così via, in un elenco tragico e interminabile, il 22 maggio scorso c’è stata La Giornata Mondiale della Biodiversità (L’International Day for Biological Diversity).

Non solo: negli ultimi giorni è stata approvata dal Parlamento Europeo la Natural Restoration Law, la legge sulla Natura. L’obbiettivo di questa legge, rappresentante forse del primo vero passo concreto effettuato dal Parlamento per la preservazione e la salvaguardia della biodiversità, è, appunto, il ripristino del 20% delle superfici marine e terrestri dell’Unione, il 15% dei fiumi nella loro lunghezza, far diminuire le barriere che limitano e impediscono la connettività di tali fiumi, ridurre gli usi di pesticidi, favorire l’impollinazione, rendere l’agricoltura più sostenibile e tanti altri punti essenziali. Il tutto entro il 2050.  Si può dire che questa sia una grande notizia, probabilmente la svolta verso un futuro migliore. Per il momento, si spera che queste promesse verranno mantenute, perché, per qualche oscuro motivo, la biodiversità sembra “scontata”. Tutte queste “giornate”, come quella da me sopracitata, passano inspiegabilmente inosservate e sottovalutate, come se, apaticamente, tutto ciò non ci riguardasse, come se non fosse un grande problema quello che sta accadendo. Che forse, da una parte, potrebbe anche essere la normale evoluzione del nostro Pianeta, con tutti i suoi cicli e le sue ere, ma va da sé che la velocità con cui tutto sta avvenendo è direttamente proporzionale al progresso dell’uomo… ma è davvero un progresso?

Oppure è un diabolico perseverare degli stessi errori che l’umanità ha continuato e continuerà a commettere nel corso del tempo? Errori che nascono, forse, non solo dalla negligenza, dalla non consapevolezza o dall’ignoranza, ma anche dall’egoismo. La ferma volontà nell’arricchirsi sempre di più, nel perpetuo funzionamento delle industrie, come nel caso del fiume Tiete, il più grande e importante bacino fluviale del Brasile, situato nei pressi di San Paolo.

Il fiume Tiete coperto di schiuma tossica

Infatti, negli ultimi giorni, circolano notizie su tutti i social inerenti a un importante strato di schiuma tossica che ha coperto le acque del fiume sudamericano.

Malu Ribeiro, portavoce della Ong Mata Atlantica (la quale si dibatte da anni per una bonifica del bacino), punta il dito non solo contro il governo, colpevole di non aver investito risorse sufficienti per la risoluzione del problema, ma anche contro la centrale elettrica del luogo. Infatti, la suddetta centrale, è la responsabile del controllo delle dighe a monte del fiume e le avrebbe aperte a causa delle forti piogge avvenute recentemente. Secondo quanto afferma Ribeiro, l’azienda non si sarebbe curata dei sedimenti contaminati sul fondo della paratoie che, al rilascio dell’acqua, hanno, di conseguenza, scaricato nel fiume un enorme quantitativo di sostanze chimiche accumulate nel corso dei mesi. Ciò avrebbe comportato la formazione di questa schiuma tossica che ha ucciso un gran numero di pesci.

Questo è un lampante esempio di incuria combinata alla volontà di risparmiare tempo e denaro. E questo connubio è il vero movente dietro ai problemi legati alla biodiversità.

Ed ecco perché è fondamentale ricordare giornate come quella sopracitata, atte a sensibilizzare la popolazione su questa tematica vitale.

Istituita nel 2000 dalle Nazioni Unite, la Giornata Mondiale della Biodiversità ha lo scopo di aumentare la consapevolezza della necessità di tutelare l’equilibrio degli ecosistemi della Terra e della sua diversità biologica, perché la crisi in atto è decisamente preoccupante e la lotta alla salvaguardia del nostro pianeta è fondamentale.
È bene ricordare che nonostante l’avanzamento della tecnologia, dipendiamo completamente dalle risorse della nostra ricchezza biologica ed è indispensabile mantenerle sane, rispettandole, preservandole e proteggendole, se vogliamo far sopravvivere la nostra specie.
La data è collegata all’adozione della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) adottata a Nairobi, Kenya, il 22 maggio 1992 e ratificata nell’Accordo di Parigi per “La mitigazione del cambiamento climatico” nel 2015, da 196 Paesi: un trattato multilaterale (due o più Stati sovrani che hanno obblighi tra di loro) raggiunto precedentemente durante il Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992.
Fu la prima conferenza mondiale sull’ambiente a cui parteciparono 172 governi e 108 capi di Stato, un evento con impatti mediatici, politici e di scelte, senza precedenti.
Vennero toccati temi come la limitazione alla produzione di tossine, per esempio il piombo nel gasolio; i rifiuti velenosi; l’utilizzo di fonti di energia alternativa differente da quella ottenuta dai tradizionali combustibili fossili; la scarsità di acqua; lo smog crescente delle grandi città.

Il punto saliente, a questo giro, è stato “Strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030”: riportare la natura nella nostra vita e assicurare che entro il 2050 tutti gli ecosistemi del mondo siano ripristinati, ricostruiti e protetti.
Il tutto confermato dalla 15esima conferenza delle parti (COP15) della Convenzione sulla diversità biologica (CBD), avvenuta il 19 dicembre 2022: “Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework” (GBF)

Tutte le Parti o governi che hanno ratificato il Trattato, si riuniscono ogni due anni per esaminare i miglioramenti compiuti e le priorità di intervento.
Per biodiversità danneggiata si intende, oltre che fauna, flora, mare, aria (manca solo il fuoco e poi abbiamo tutti e quattro gli elementi della Natura), anche un sistema alimentare fallimentare: circa un terzo di ciò che viene prodotto per il consumo umano diventa, sfortunatamente, rifiuto.
Dobbiamo modificare anche il modo in cui coltiviamo, trasformiamo, trasportiamo, mangiamo e sprechiamo cibo, perché sono tutte azioni che fanno parte dell’allarmante cambiamento terrestre.
Il tema scelto quest’anno per la Giornata mondiale della biodiversità è stato “Dall’accordo all’azione: ricostruire la biodiversità” (From Agreement to Action: Build Back Biodiversity), predisponendo 22 azioni (es. compra prodotti che non danneggino l’ambiente, non sprecare, ecc.) per la biodiversità. (cliccate qui per maggiori informazioni)
L’obiettivo è “ricostruire” oltre che salvaguardare: impegnarsi in una rigenerazione degli ambienti danneggiati e minacciati, mitigando l’impatto.

Ma facciamo un passo indietro, perché prima voglio spiegarvi che cos’è la biodiversità, soffermandomi poi sull’importanza delle api e delle tartarughe sul nostro Pianeta, perché giornate istituite poco dopo quella della Biodiversità.
Innanzitutto il termine biodiversità deriva dal greco “bios” che significa “vita”, e dal latino “diversitas” che significa “differenza” o “diversità”.
Il dizionario Treccani definisce la biodiversità così: “la diversità biologica, ossia l’insieme della differenziazione, della variazione e della complessità della vita sulla Terra.” La Convenzione sulla diversità biologica, stipulata a Rio de Janeiro nel 1992, ha stabilito che “diversità biologica significa diversità, in accordo con i significati di differenziazione, variazione, variabilità, complessità e ricchezza negli organismi viventi, da qualsiasi fonte essa derivi, inclusi tra gli altri gli ecosistemi terrestri, marini e acquatici in genere, nonché i complessi ecologici di cui questi fanno parte”. La biodiversità include quindi “la diversità all’interno di una specie, tra specie diverse e degli ecosistemi” (Bisby 1995).
Quindi, l’intera variabilità biologica, una molteplicità di specie, geni, nicchie ecologiche e organismi, che, in relazione tra loro, creano un equilibrio assolutamente fondamentale per la vita sul nostro Pianeta. (Sì, anche le zanzare e le cimici fanno parte di questo delicato ecosistema, anche se fastidiose.)

Si considerano tre diversi livelli di biodiversità:
diversità genetica, l’insieme complessivo di tutti gli esseri viventi che abitano la Terra.
diversità di specie, cioè l’abbondanza e la diversità tassonomica (classificazione organismi viventi) di specie presenti per la Terra.
diversità di ecosistemi, la totalità di tutti gli ambienti naturali presenti.

La biodiversità è messa maggiormente a repentaglio in vasti tratti nelle regioni più povere del mondo, che aspirano, ovviamente, alla prosperità: le risorse naturali vengono distrutte più rapidamente della loro rigenerazione, creando così un loop negativo sia per l’ambiente che per le comunità locali.

Brasile, Indonesia e Congo, sono le nazioni più colpite dal fenomeno che a causa della distruzione delle foreste, liberano in atmosfera gigantesche quantità di gas-serra, responsabili poi del riscaldamento globale. 

Mentre i Paesi industrializzati e più ricchi, consumano di più di ciò che servirebbe, utilizzando mezzi distruttivi.

 

In maniera semplicistica, perché le domande e le risposte a cui far fronte sono più complicate, sono il modo e la velocità con cui l’appropriazione e il consumo di queste risorse vengono effettuati, che non il motivo, comunque importante, per cui tutto ciò avviene. 

Come accennavo prima, le api sono un tassello essenziale e imprescindibile per la nostra vita in primis, e per l’armonia e il bilanciamento della diversità biologica. E poi sono così belle quando svolazzano da un fiore all’altro!

Pochi giorni prima dell’ International Day for Biological Diversity, il 20 maggio, c’è stata la “Giornata mondiale delle api”: una data che coincide con quella di nascita di Anton Janša (1734-1773), pioniere delle tecniche di apicoltura moderne nel suo paese natale, la Slovenia, nel XVIII secolo. È una giornata che vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di queste piccole impollinatrici minacciate dall’inquinamento e del loro contributo allo sviluppo sostenibile.

Perché sì, insetti come api e farfalle sono indispensabili per la salvaguardia dell’ecosistema, poiché contribuiscono in maniera fondamentale all’impollinazione dei fiori e delle piante che ci donano frutta e verdura.

La branca dell’entomologia (cioè la zoologia degli insetti) che si occupa dello studio delle api, si chiama melittologia, dal greco “melitta” (ape) e logia.

Purtroppo, già il 40% delle specie di api presenti nel mondo (una percentuale non da poco), secondo uno studio del WWF, è a rischio di estinzione, a causa dell’operato dell’uomo. I pesticidi, prima di tutto, sono uno dei motivi della scomparsa di queste importantissime creature a sei zampe alate.

Sempre parlando tramite dati numerici, perché si tratta di informazioni concrete che possono permettere un’immediata comprensione del danno che stiamo causando se non troviamo una soluzione, le api si occupano dell’impollinazione del 70% delle specie vegetali presenti sul pianeta, contribuendo alla produzione di un bel 35% di cibo, per tutto il globo. (fonte, ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale)

Inoltre, senza insetti impollinatori come api, farfalle e addirittura mosche, non sarebbe possibile la produzione di prodotti salutari e ghiotti come miele e pappa reale. A proposito, sapevate che l’uomo si serve delle api per la creazione del miele da circa 12 mila anni?

Le prime tracce di arnie costruite dall’uomo risalgono, infatti, al VI millennio a.C. Nell’antico Egitto venivano deposti accanto alle mummie grandi vasi colmi di miele per il viaggio nell’aldilà. Sempre gli antichi egizi usavano ricette a base di miele non solo a uso alimentare, ma anche medico: venivano prodotti unguenti per piaghe e ferite o veniva utilizzato per i disturbi digestivi.

Tra i sumeri, nel Codice di Hammurabi (una tra le più antiche raccolte di leggi scritte, XVIII sec. a.C.), sono stati ritrovati articoli che tutelavano gli apicoltori dal furto di miele dalle arnie.

I romani ne importavano grandi quantità da Creta, Cipro e Malta.

Il miele ottenuto dalle api grazie al nettare raccolto dai fiori e poi combinato, sempre dalle api, con altre loro sostanze e trasformato, viene poi fatto maturare nelle celle dei favi, cioè le strutture in cera costruite da questi insetti. Gli apicoltori, per allevare le api e produrre il miele, le collocano all’interno di un contenitore di legno dove sono posizionati i telaini, che serviranno per la costruzione delle celle che diventeranno i favi. Questi contenitori di legno vengono chiamati arnie e sono dotati di un ingresso per l’entrata e l’uscita delle api bottinatrici, quelle che raccolgono il nettare e il polline.

Ci sono vari tipi di miele, alcuni molto pregiati: il più prezioso e costoso al mondo è il miele Elvish (che significa “elfico”, ma non viene da Gran Burrone, “Il Signore degli Anelli” docet). Viene ottenuto in una caverna profonda 1800 metri, in piccolissime quantità nella Valle del Saricayr, in Turchia. Venne scoperto da Gunay Gunduz, un apicoltore che aveva visto alcune delle sue api viaggiare dentro e fuori dalla caverna. La particolarità di questa prelibatezza è che viene fatta direttamente sulle pareti della grotta, senza perdere alcuna delle sue proprietà nutritive. Il miele Elvish ha un costo elevato, il primo barattolo di un chilo, dopo la scoperta, fu venduto all’asta per 45 mila euro, il secondo chilo a circa 29 mila. Ora, un barattolo può costare intorno ai 5 mila euro.

La caverna in cui viene prodotto il miele Elvish

Un altro miele piuttosto costoso è il miele dell’Himalaya, noto alla comunità scientifica perché contiene una sostanza presente nel nettare di rododendro con caratteristiche allucinogene: un uso eccessivo può provocare problemi cardiaci e respiratori, allucinazioni gravi, sensazione di ebbrezza.  Un’altra particolarità di questa delizia nepalese e legata alla tradizione, è la difficoltà di raccolta: gli alveari sono arroccati su aspre scogliere alte 300 metri, di conseguenza gli “Honey hunters” (cacciatori di miele), della tribù dei Gurung, sono costretti ad appendersi a grosse corde pericolanti fatte col bambù e arrampicarsi fin lassù. Questi alveari ospitano la più grande ape del mondo, l’Apis dorsata laboriosa, lunga fino a 3 cm.

Oltre l’Elvish e il miele himalayano, troviamo in commercio altre varietà decisamente pregiate oltre quello delle Hawaii o il Manuka (Nuova Zelanda), come per esempio il Miele LifeMel, da Israele (420 €/kg, il secondo più caro al mondo), seguito dal Miele di Sidr (pianta), dallo Yemen (280 €/kg). C’è poi il Miele di Bashkiria, Russia (120-200 €/kg), prodotto da api resistenti al rigido freddo inverno di quelle zone, il Miele dell’Opéra di Garnier di Parigi, Francia (120 €/kg) elaborato sul tetto del famoso e imponente teatro dell’Opéra di Parigi, il Miele dell’isola di Socotra, dal 2008 patrimonio mondiale dell’Unesco, nello Yemen (110 €/kg), con proprietà medicali, ricavato da 160 piante esclusive, fra tutte l’”albero del sangue di drago“.

L’Italia, invece, ha il primato al mondo per la più grande varietà di mieli monoflorali, con oltre 50 tipi di miele.

Io, per esempio, sono una copia di Winnie Pooh, ghiotta di miele di acacia, detto anche miele di robinia, perché viene prodotto dalle api, appunto, sui fiori della robinia. Si tratta di un miele molto dolce e la tradizione popolare gli attribuisce proprietà detossificanti per il fegato.

Tra i mieli italiani ne esistono alcuni particolarmente rari e pregiati: uno di questi è il miele di stregonia (pianta), che cresce tra i 1500 metri e i 1900 metri o nella prateria mediterranea, trovandolo anche in Sicilia sulle Madonie. Questo miele è in grado di accelerare le funzioni metaboliche e di combattere i batteri e i virus.

Federico Garcia Lorca scriveva del miele:

“Il miele è l’epopea dell’amore,

la materialità dell’infinito.

Anima e sangue dolente dei fiori

Condensata attraverso un altro spirito.”

E scriveva ancora:

“Il miele è come il sole del mattino,

ha tutta la grazia dell’estate,

e l’antica frescura dell’autunno.

È la foglia appassita ed è il frumento.”

Ma non guardiamo solo il nostro orticello, come siamo soliti fare: la salvaguardia delle api è essenziale anche per la preservazione di diversi ecosistemi garantiti proprio dall’opera di impollinazione degli insetti a strisce gialle e nere, attraverso la riproduzione di alcuni tipi di piante selvatiche che servono proprio a questo scopo.

Saranno circa 100 milioni di anni, se non di più, che le api volano tra un fiore e l’altro, fin da “quando i dinosauri dominavano la Terra” (grazie, “Jurassic Park” per la citazione) sono state le guardiane della nostra flora e della nostra fauna. Ne è prova un blocco di ambra fossile in cui è stata rinvenuta un’ape risalente proprio a quel periodo.

E non sono solo i pesticidi il nemico principale, ma anche tutte quelle tecniche agricole moderne che vengono utilizzate dall’uomo, come la monocoltura (citando il Dizionario “un tipo di sfruttamento del suolo agrario, consistente nella coltivazione di una sola specie o varietà di piante per più anni sullo stesso terreno”), la frammentazione delle aree naturali o l’abbattimento delle siepi.

E naturalmente (scelta di parole alquanto infelice, dato il contesto), l’inquinamento ambientale è un carico da novanta da tenere in seria considerazione.

Non a caso, Einstein fece un avvertimento da non sottovalutare: “Se l’ape scomparisse dalla faccia della Terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita.”

Una soluzione sarebbe un ripristino quantomeno immediato di tutti quegli habitat naturali che possano permettere il proliferare di questi insetti, nonché una rivoluzione dei metodi agricoli sfruttati oggigiorno, con l’eliminazione di tutti quei prodotti chimici che creano solo danni.

E se si ha il timore che i parassiti possano attaccare e nutrirsi delle piante da noi coltivate, sono proprio queste prese di posizione a favore degli insetti impollinatori a essere la chiave di volta: queste e altre tecniche di salvaguardia, infatti, permetterebbero il proliferare dei predatori naturali di questi parassiti, senza l’utilizzo di agenti pesticidi e fungicidi.

Queste operazioni di “controllo biologico”, oltretutto, si rivelano essere anche efficaci non solo dal punto di vista faunistico, ma anche sotto il profilo economico e di impatto ambientale.

Si potrebbe pensare anche al vertical farming, ovvero una specie di coltivazione agricola effettuata al chiuso, in grattacieli costruiti apposta per questo scopo, garantendo (ipoteticamente) una bassissima emissione di CO2, un risparmio dell’acqua pari al 90% e una produzione veloce e a Km 0.

Ma io sono del parere che prima di tutto si debba porre un rimedio nelle coltivazioni all’aria aperta, prima di dover scavare nel terreno e piazzare altro cemento.

Tra l’altro, ecco qualche piccola curiosità su queste piccole amiche: sapevate che le api hanno cinque occhi? Essi sono situati su capo e fronte, dove, alle estremità destra e sinistra si trovano i due grossi occhi principali, ovvero gli occhi composti. Posseggono poi, sulla fronte, gli ocelli, che sono tre piccoli occhi semplici, che servono loro per mettere a fuoco gli oggetti più vicini. La copertura della loro visuale è vicina ai 360 gradi! La loro percezione dei colori è particolare, perché, a differenza dell’occhio umano, le api sono in grado di vederne solo alcuni, non distinguendo bene le sfumature del rosso. Inoltre, percepiscono i raggi ultravioletti. Possono però vedere molto bene in assenza di luce e navigare nel campo elettromagnetico della Terra.

Un’altra curiosità: le api italiane sono le più ricercate e migliori al mondo, perché più operose (orgoglio nazionale!).

Inoltre, questi esserini non dormono quasi mai, risposano solo per brevi periodi di tempo (circa 30 secondi). Infatti, anche di notte continuano a lavorare: pensate che la regina può arrivare a deporre 2000 uova in 24 ore! (Che voglia!)

L’ape regina si accoppia una sola volta in tutta la vita durante il suo “volo nuziale” e lo fa con 12 fuchi… Però, ahimè, al termine di questo baccanale accoppiamento i maschi dell’ape rimangono evirati e muoiono (ma che tragedia!). In pochi sopravvivono al rapporto, ma verranno poi cacciati dalle altre api per non sprecare le riserve di miele per sfamarli (altro che girl power…).

Le loro celle sono perfettamente geometriche: la loro forma esagonale consente di costruire il maggior numero di celle nel minor spazio disponibile.

E poi, hanno un linguaggio segreto, chiamato “la danza delle api”: a seconda della forma della danza, c’è una diversa comunicazione. Per esempio, se la danza è circolare, l’ape esploratrice informa le altre che il nettare è vicino. Oppure, se si muove danzando verso l’alto, vuol dire che il nettare è in direzione del Sole.

Altra curiosità: le api fanno praticamente l’equivalente di più di tre volte il giro del mondo per produrre un chilo di miele, perché devono volare per circa 144 mila chilometri.

E dalla terra passiamo anche al mare, poiché il 23 maggio è stata la Giornata Mondiale delle Tartarughe (World Turtle Day) e il 16 giugno quella delle tartarughe marine.

Questa ricorrenza è nata nel 1990 grazie all’organizzazione no-profit per la salvaguardia di tutti i tipi di tartarughe American Tortoise Rescue (ATR).

Lo scopo della suddetta giornata è, naturalmente, sensibilizzare le persone e invogliarle ad adottare una serie di comportamenti corretti non solo nei confronti della Natura in sé, ma soprattutto per far sì che questi adorabili e pacifici rettili non si estinguano.

Perché sfortunatamente, già il 70% delle tartarughe rischia l’estinzione. E non solo quelle di mare, anche quelle di terra non se la passano bene.

Le cause di questo sterminio silenzioso sono l’inquinamento, la caccia e la pesca incontrollate.

Questi animali esistono da 200 milioni di anni… e l’Uomo, come al solito, rovina tutto. Se non ci diamo una regolata, fermando questo massacro e diminuendo drasticamente certi nostri comportamenti, alcune specie di tartarughe saranno destinate a scomparire non in centinaia d’anni, ma nel giro di pochi decenni.

La plastica è un grosso nemico. Le tartarughe rimangono incastrate nella plastica gettata in mare, la mangiano scambiandola per delle meduse (facenti parte della loro dieta) e muoiono soffocate.

Ed è proprio grazie alla loro dieta, a base sia di flora che di fauna, che viene preservato l’equilibrio ecologico di ecosistemi marini e non.

Il brucare e il mangiucchiare delle testuggini marine, inoltre, mantengono alta la salute delle praterie di posidonia (un particolare tipo di pianta acquatica endemica del Mar Mediterraneo) e delle barriere coralline.

In generale, tutti i tipi di tartarughe, insieme ai coccodrilli, sono talmente importanti per l’ecosistema che se si estinguessero, insieme a loro, scomparirebbe anche un buon 13% delle altre creature viventi nello stesso habitat.

E se vi ho parlato di curiosità sulle api, non mi risparmierò certo per le tartarughe.

Innanzitutto, sono prive di denti, perché hanno delle strutture di cheratina sul palato, intorno alla mascella e nell’esofago, che aiutano a trattenere ed elaborare il cibo.

Il carapace è parte della loro colonna vertebrale e la corazza è composta da circa 50 elementi ossei, ha gli scuti (cioè le scaglie) fatti di cheratina come le unghie e gli zoccoli e fungono da rivestimento protettivo. La corazza, inoltre, è molto sensibile, perché contiene le terminazioni nervose, quindi quando le tocchiamo e sfioriamo vanno trattate con estrema delicatezza.

Le tartarughe d’acqua possono trattenere il respiro per moltissimo tempo, ma se intrappolate, alla fine, annegano.

Nelle tartarughe, il sesso è regolato dalla temperatura a cui vengono incubate le uova, perché non hanno cromosomi sessuali.

Quando sono ancora nell’uovo, i piccoli all’interno emettono dei suoni per comunicare e sincronizzarsi con le altre uova per la schiusa (“Oh raga, che dite, oggi usciamo?”).

Questi rettili non hanno le corde vocali, perciò non emettono suoni articolati, tuttavia non sono mute poiché producono soffi simili a sibili molto sonori per spaventare i predatori, che avvengono con l’espulsione dell’aria dai loro polmoni.

Attualmente si contano 348 specie di tartarughe e testuggini viventi.

Vi posso narrare qualche dato interessante sulla biodiversità marina, raccolto dalla Fundación Biodiversidad spagnola.

Il principale polmone del pianeta non è in realtà la Foresta Amazzonica, ma si trova sott’acqua, perché il 75% dell’ossigeno che respiriamo è prodotto dal plancton oceanico, che assorbe anche il 25% del biossido di carbonio che emettiamo nell’atmosfera.

Nonostante gli oceani siano davvero immensi, il 60% della popolazione marina vive nei 60 chilometri vicino alla costa (a parte il grande Cthulhu, chi conosce il grande scrittore Lovecraft già sa).

Ora, io vi ho parlato di api e tartarughe nel dettaglio, ma non bisogna dimenticare tutti gli altri animali con cui condividiamo il pianeta.

Gli esseri umani pensano di essere i padroni incontrastati di tutto ciò che vedono e toccano, ne conseguono una oscitanza e un menefreghismo elevatissimi, proiettati sul mondo.

Ne approfitto per consigliarvi la visione di uno dei più bei documentari mai realizzati, uno di quelli che spiattellano in faccia la realtà, con esaustività e, allo stesso tempo, estrema chiarezza. Una pellicola prodotta dal nostro amato Leonardo DiCaprio e diretta da Fisher Stevens, nel 2016: “Punto di non ritorno – Before the Flood”, dove Leonardo DiCaprio stesso si confronta con alcune delle personalità più influenti del globo (tra cui Elon Musk) sulle problematiche legate al cambiamento climatico. (Per visionare il trailer, cliccate qui)

E sempre sull’innalzamento della temperatura globale, ma incentrandoci sulla tematica dello scioglimento dei ghiacciai, non posso non consigliarvi “Chasing Ice”, documentario diretto da Jeff Orlowski nel 2012, dove uno scettico sulle reali conseguenze del cambiamento climatico (il fotografo per il National Geographic, James Balog) si è dovuto ricredere, quando ha visto con occhio la drastica evoluzione dei ghiacciai del Circolo Polare Artico. E anche lo spettatore si ritrova a rimanere a bocca aperta, sbalordito dal “prima e dopo”, grazie a una scelta di regia e montaggio studiate appositamente per farci comprendere la velocità con cui questi immensi ghiacciai si stanno sciogliendo.

Lo stesso regista, ha realizzato un altro documentario, sempre sul cambiamento climatico, concentrandosi, a questo giro, sull’impatto che l’innalzamento della temperatura dei mari ha sulle barriere coralline, sbiancandole. Io ne sono stata testimone durante un mio viaggio alle Maldive, dove i coralli, a causa di ciò, sono diventati quasi completamente grigi. Il nome di questa pellicola è “Chasing Coral”, del 2017.

Inoltre, un altro lungometraggio in grado di levare il paraocchi che ogni giorno ci piazziamo sulla testa è, sicuramente, “Plastic Planet”, prodotto nel 2009 dal regista tedesco Werner Boote: qua, si analizza, come si evince dal titolo, ogni piccola sfaccettatura legata all’utilizzo della plastica, a come essa non solo inquini il nostro pianeta per colpa della nostra incuria, ma anche gli effetti che ha la stessa sul nostro organismo, perché sì, frammenti di microplastica vengono inghiottiti dai pesci che noi peschiamo e consumiamo… stiamo mangiando plastica.

E questo è lo stesso messaggio che si può riscontrare nel documentario “A plastic ocean”, realizzato nel 2016 da parte di Craig Leeson.

L’Uomo non può sopravvivere da solo, nonostante venga abbagliato dalla costante voglia di arrivare sempre più in alto, dall’evoluzione delle tecnologie e dalle continue scoperte scientifiche.

Anche perché, come viene specificato nel Global Risk Report dell’anno corrente 2023, si sta perdendo la biodiversità.

Una soluzione concreta possono essere i cosiddetti corridoi ecologici, letteralmente dei “corridoi” verdi creati ad hoc come zona di passaggio tra più aree naturali per le specie dipendenti da un unico ambiente, permettendo così a flora e fauna di poter circolare liberamente tra le varie zone senza problemi e senza alcun intralcio umano.

Lo stesso vale per i corridoi ecologici urbani, di cui l’esempio per eccellenza è la Bee Highway, situata a Oslo, in Norvegia: un’autostrada urbana composta da tetti verdi e fiori, in modo da poter preservare le api presenti nel contesto cittadino.

Ma anche qui in Italia sono presenti questi corridoi ecologici: il progetto LIFE Bear-Smart Corridors, posizionato sull’Appennino Centrale, ha lo scopo di migliorare le condizioni di vita dell’orso bruno marsicano, animale endemico e a rischio di estinzione.

Il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres ha dichiarato:
“Dall’aria che respiriamo al cibo che mangiamo, dall’energia che ci alimenta alle medicine che ci curano, le nostre vite dipendono totalmente da ecosistemi sani. Eppure le nostre azioni stanno devastando ogni angolo del pianeta. Un milione di specie sono a rischio di estinzione, a causa del degrado degli habitat, dell’inquinamento alle stelle e del peggioramento della crisi climatica. Dobbiamo porre fine a questa guerra alla natura”.

Ma anche andando oltre alla pura e semplice “utilità”… fermatevi un attimo, giusto un momento.

Guardatevi attorno.

Osservate la trasparenza dell’acqua cristallina dei mari, il verde brillante degli alberi, le centinaia di sfumature di colori presenti nella roccia, nei fiori, nella terra.

Aprite la finestra e ascoltate il cinguettio degli uccelli, il vociare dei gabbiani, il ruggito di una tigre nella giungla, il canto delle balene.

Nuotate con le tartarughe, i dugonghi, gli squali, le mante, i pesci variopinti (senza naturalmente disturbarli).

Ammirate silenziosamente i leoni nella savana, le giraffe, i rinoceronti, i bufali, le zebre, gli elefanti e le gazzelle.

Provate tenerezza ed empatia nel guardare negli occhi un primate, un panda, un cucciolo di foca.

Camminate in riva a una spiaggia senza rifiuti, in una foresta i cui alberi non sono stati abbattuti per far spazio al cemento, immergetevi in un oceano non inquinato dalla plastica, respirate l’aria pulita.

Con anche il più piccolo gesto, possiamo essere in grado di recuperare tutto questo, ma soprattutto di non perderlo per strada, in nome dell’egoismo dell’Uomo.

 

Come disse il celebre scrittore Ernest Hemingway (1899 – 1961): “La Terra è un bel posto e vale la pena lottare per lei.”

Scritto da Camilla Marino