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La leggenda dell’animazione: Hayao Miyazaki

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Esistono certi personaggi il cui nome riecheggerà per l’eternità, senza mai essere dimenticato. Andando oltre i re, le regine, gli imperatori, i papi, i grandi strateghi, nel mondo dell’arte ci sono Caravaggio, Picasso, Michelangelo, Van Gogh, Gauguin… Nella letteratura Dickens, Baudelaire, Dostoevskij, Cervantes, Dante…

Nel mondo del cinema, tra i grandi, tra i registi che hanno scritto la storia, figurano, insieme ad altri, Steven Spielberg, Walt Disney, Fellini, Sergio Leone, Hitchcock e anche Hayao Miyazaki.

Oggi è lui il protagonista indiscusso di questo articolo, poiché i suoi film, oltre a essere una gioia per gli occhi, sono un patrimonio culturale mondiale di tutto rispetto, meritandosi un posto sull’Olimpo delle opere più importanti e significative della storia del cinema.

Sicuramente, anche i profani del settore l’avranno sentito nominare almeno una volta, ma vorrei comunque iniziare con il suo ID.

Miyazaki, nato a Tokyo nel 1941, è un produttore, regista, animatore e mangaka nipponico, fondatore dello Studio Ghibli, ovvero il suo studio cinematografico d’animazione, fondato nel 1985.

Spesso viene paragonato a Walt Disney, per la sua rilevanza e il suo contributo al panorama dell’animazione, altresì sono in molti a considerarlo (me compresa) il migliore nel suo campo, una leggenda vivente che dà forma a veri e propri capolavori.

Capolavori che non solo riflettono con cura il folklore del Giappone, la sua cultura e il suo popolo, ma che donano messaggi, riflessioni e morali universali profondi, capaci di imprimersi nell’animo di adulti e bambini.

Tra l’altro, ecco una piccola curiosità sull’origine del nome dello Studio Ghibli: Ghibli è il vento caldo che soffia nel deserto del Sahara, ma si tratta anche di un velivolo italiano degli anni ’30 e Miyazaki è sempre stato un grande appassionato d’aviazione.

In effetti, considerato ciò, non deve stupire che uno dei suoi film, “Porco Rosso”, (1992, il titolo in lingua originale è “Il maiale cremisi”) abbia come protagonista un maiale italiano, pilota d’eccezione.

Tuttavia, il logo dello Studio Ghibli è il personaggio di Totoro, dal lungometraggio del 1988 “Il mio vicino Totoro”.

Come dicevo, i suoi lavori sono ricchi di riferimenti alla tradizione giapponese e si ergono a racconti intrisi di morale, con uno spessore visivo e di contenuto più che evidente.

Vorrei esporvi questi concetti partendo dal lungometraggio che ha consacrato Miyazaki a livello mondiale come forse il miglior regista d’animazione vivente: “La città incantata”, film del 2001 il cui titolo originale è traducibile come “La sparizione causata dai Kami di Sen e Chihiro”. Questo film ha ricevuto l’Oscar come miglior film d’animazione nel 2003. È stata la prima pellicola animata con tecnica giapponese ad appropriarsi di tale riconoscimento e ha permesso globalmente di concepire gli anime come opere non prettamente relegate all’infanzia o comprensibili solo dal popolo del Sol Levante.

Sarà anche per il fatto che questo sia il primo film di Miyazaki che io abbia visto in giovanissima età e che già amavo pazzamente, ma obiettivamente è un’opera commovente, carica di significato, disegnata magistralmente, con quella cura nei dettagli tipica del regista, con una colonna sonora di tutto rispetto firmata dal compositore Joe Hisaishi (con cui Miyazaki ha creato un sodalizio, un po’ come Danny Elfman che è il conduttore d’orchestra di fiducia di Tim Burton).

Con la parola kami, si designano quelli che noi identificheremmo come divinità o spiriti della religione shintoista. Infatti, la storia è liberamente ispirata al romanzo di Sachiko Kashiwaba “Il meraviglioso paese oltre la nebbia”, del 1975. Una bambina di dieci anni, di nome Chihiro, si sta trasferendo con i suoi genitori in una nuova casa, ma suo padre, credendo di imboccare una scorciatoia, li porta nel bosco, davanti a un tunnel rosso, le cui pareti sono fatte di cartapesta. Chihiro è riluttante all’idea di entrarci, ma si ritrova costretta a seguire i due adulti, per scoprire, dall’altra parte, quello che sembra un vecchio parco di divertimenti abbandonato. Nonostante il luogo sia all’apparenza vacante, la famiglia trova innumerevoli pietanze squisite servite in bella mostra sulla tavola di un locale del posto. I due genitori, incuranti della situazione, si siedono e cominciano a mangiare, mentre Chihiro si allontana per esplorare. Cala la sera e si scopre che quella cittadella è in realtà un luogo di ritrovo per gli spiriti e il cibo cucinato era per loro. I due genitori si trasformano in grassi maiali e Chihiro si ritrova obbligata a dover lavorare all’interno dei bagni termali della cittadina per poterli salvare.

Premessa importante: non voglio spoilerare il finale di questi lungometraggi, ma per potervi fornire un’analisi dettagliata, è necessario che io spieghi per sommi capi alcune situazioni che accadono nel corso delle varie vicende.

Intanto, “La Città Incantata” – è quasi scontato dirlo – è una storia di formazione, ma è anche una critica al consumismo, piena zeppa di riferimenti al patrimonio intellettuale nipponico. In primis, tutto il concetto che ruota attorno alla trama, deriva dal cosiddetto kamikakushi, sarebbe a dire una credenza volta a spiegare la sparizione di alcune persone per volontà degli dèi, spesso utilizzata in passato per giustificare la morte di una persona cara.

Chihiro compie un viaggio dentro sé stessa entrando e uscendo da un tunnel, un’immagine chiarissima, alla pari di Alice che cade nella tana del Bianconiglio. Il fatto che il muro del tunnel sia inizialmente di cartapesta e solo successivamente in mattoni, indica lo stadio infantile e capriccioso di Chihiro, messo a confronto con la sua maturazione.

Maturazione che avviene, manco a dirlo, grazie al lavoro. Il tema del lavoro e dell’indipendenza è fondamentale in questo film.

È solo lavorando e diventando adulta che Chihiro non soccomberà, non verrà trasformata in maiale e poi mangiata o non verrà trasformata in una pallina di fuliggine (perché sì, qua le palline di fuliggine sono senzienti e alimentano le caldaie con il carbone).

Tuttavia, per lavorare serve un contratto, un contratto che può essere redatto solo dalla direttrice dei bagni termali: la strega Yubaba. Questo personaggio iconico è basato su una leggenda giapponese, quella della yama-uba (o yamanba o yamamba). Secondo il racconto, la yama-uba ha una duplice natura: la prima è quella di un essere mostruoso, con i capelli scompigliati e una larga bocca con cui divora i bambini; la seconda è quella di una madre amorevole, che ha partorito le stagioni. Si dice che una donna incinta che camminava lungo la strada di casa, si ritrovò costretta a dover partorire in una capanna in mezzo alle montagne. Un’altra donna la aiutò nella nascita, ma in realtà, quella donna era la yama-uba, che divorò l’infante appena venuto alla luce.

Non deve stupire dunque che, ne “La Città Incantata”, Yubaba abbia due personalità, messe in mostra sia caratterialmente che fisicamente, l’una che compensa l’altra.

Una è Yubaba, appunto, la strega a capo dell’intero edificio, spietata nel lavoro, ma madre apprensiva con il suo gigantesco neonato, tanto da non farlo mai uscire dalla sua camera piena di cuscini e giocattoli. L’altra è sua sorella gemella Zeniba, che vive in campagna, fa lavori artigianali, è un’amabile nonnina, ma allo stesso tempo non esita a maledire e uccidere se provocata.

E che cosa fa Yubaba quando Chihiro insiste nel voler lavorare presso la struttura? Le sottrae il nome e gliene dà uno nuovo.

Questo è un chiarissimo rimando al concetto stesso di identità: il nostro nome fa parte di noi e quando ne veniamo privati, non siamo più persone, ma semplici numeri. Infatti, se Chihiro scordasse il suo vero nome, rimarrebbe intrappolata per sempre sotto il controllo di Yubaba, così come è successo a un altro personaggio importantissimo della vicenda: Haku, un ragazzino che, in realtà, è lo spirito di un fiume, che aiuterà Chihiro durante il suo percorso. Non solo, questo è un richiamo alla dottrina del lavoro che vige in Giappone, così sfiancante, così oppressiva che è stato addirittura coniato un termine per definire la “morte per lavoro straordinario”, cioè Karoshi. Miyazaki pone una critica: l’uomo non è più uomo, ma strumento del lavoro, tanto dal venirne fuori del tutto spersonalizzato. Ecco, dunque, il significato della perdita del nome.  

Così come, quest’idea della totale perdita di sé stessi, la troviamo evidente nelle palline di fuliggine. Kamaji, lo schiavo delle caldaie, lo dice chiaramente a Chihiro: “Non puoi togliere così il lavoro agli altri. Se non lavorano, l’incantesimo si rompe e tornano nella fuliggine!”.

La vita che dipende unicamente dal lavoro…

Altro personaggio rilevante è, sicuramente, Senza-Volto.

Ora, dovete sapere che, come avrete avuto modo di intuire, tutti i personaggi presenti ne “La Città Incantata” sono basati, come dicevo, più o meno, sugli spiriti della cultura shintoista e giapponese.

Senza-Volto è l’unico, tra loro, a non esserlo. È un personaggio completamente inventato da Miyazaki: un essere che non parla e che porta una maschera. Non ha un volto, eppure la maschera sembra essere il suo volto. Questo è la rappresentazione della tentazione, del consumismo, di un Giappone che a Miyazaki non piace. L’essere è in grado di generare pepite d’oro direttamente dalle mani e per questo tutti i membri dello staff cercano di ingraziarselo. In che modo? Offrendogli cibo a volontà, leccornie con cui Senza-Volto non si sazierà mai, anzi diventa sempre più grasso e pieno, distribuendo oro a tutti. Ma la sua ossessione rimane Chihiro, l’unica ad averlo trattato con sincera gentilezza e ad averlo fatto entrare nei bagni perché convinta che fosse un cliente rimasto bloccato sotto la pioggia. Eppure, lei non è interessata all’oro, non se ne fa niente e questo fa infuriare Senza-Volto, tanto da arrivare a voler distruggere tutto e a divorare alcuni membri del personale.

Il consumismo è evidente anche e soprattutto nei genitori di Chihiro, che si trasformano in maiali: loro non si sono preoccupati di capire di chi fosse quel cibo, ma hanno semplicemente arraffato per riempire le proprie pance.

Chihiro non diventa un maiale quando mangia il cibo degli spiriti perché le viene offerto.

Per non parlare della tematica ambientale, ben palese quando lo spirito del fiume si presenta ai bagni per farsi pulire dall’immonda sporcizia che lo rende putrido e maleodorante. Dal suo corpo vengono estratti tutti i rifiuti dell’uomo: spazzatura, una bicicletta, plastica, attrezzi vari, rifiuti di ogni sorta.

E questa tematica è il cardine di un altro capolavoro di Miyazaki: “La principessa Mononoke”, del 1997: nel periodo Muromachi, una sorta di Medioevo giapponese, il principe Ashitaka, appartenente al popolo degli Emishi, uccide un cinghiale posseduto da un demone, ma viene ferito in combattimento. La lacerazione che si è procurato gli attacca una maledizione, quindi è costretto a lasciare il villaggio in cerca di una cura. Si imbatte, dunque, in due figure femminili contrapposte: Lady Eboshi, leader della Città del Ferro, e San, la principessa “spettro” (mononoke, appunto), una bambina abbandonata e cresciuta dai lupi.

Gli umani e le divinità della foresta sono in guerra tra loro: i primi vogliono espandersi sempre di più a discapito della Natura che li circonda, gli animali contrattaccano.

Un lungometraggio davvero cruento, molto più violento dei lavori di Miyazaki in generale, in quanto vengono mostrati sangue e amputazioni anche piuttosto gravi.

Lo scontro Uomo-Natura è al centro della vicenda, con personaggi elaborati e complessi che, paradossalmente, non sono stereotipati nelle rispettive fazioni. Lady Eboshi si appropria delle terre degli animali senza scrupoli, arrivando addirittura a voler decapitare il sommo dio bestia (ai veneti piace questo connubio) per poter diventare immortale, ma è allo stesso tempo una leader giusta con il suo popolo, simbolo per eccellenza del femminismo; San combatte una guerra legittima, vuole proteggere la sua casa, ma è spinta da un sentimento di puro odio verso gli umani, così come lo sono tutti gli animali della foresta, dai lupi, ai cinghiali, agli oranghi.

Il principe Ashitake è la via di mezzo, la mediazione tra i due avversari, la vera soluzione: la coesistenza delle due parti senza che sentimenti come l’odio e il rancore possano portare alla distruzione. Il perfetto equilibrio viene incarnato anche dal sommo dio bestia, la creatura più potente della Natura. Si rivela ai nostri occhi, nelle ore diurne, come una chimera fatta dalle molteplici specie che dominano quelle terre, compreso un volto dalle fattezze umane. Di notte, diventa un’entità spirituale maestosa e gigantesca che cammina sulle montagne.

Oltretutto, sono presenti gli adorabili kodama, ovvero gli spiriti degli alberi. La loro presenza indica una terra incontaminata e possono essere sia buoni che vendicativi: secondo la cultura del Sol Levante, invero, porta tanta sfortunata abbattere la casa di un kodama, ovvero un albero.

Miyazaki ha mosso una grande critica nei confronti degli atti di guerriglia soprattutto in un altro suo celebre lavoro: “Il castello errante di Howl”, del 2004, basato sull’omonimo romanzo del 1986 della scrittrice inglese Diana Wynne Jones: in un tempo e in un luogo non meglio precisati (forse identificabili come una proiezione della Seconda Guerra Mondiale), è in atto una guerra decisamente cruenta. Sophie è una diciottenne posata ed educata che ha preso in gestione la cappelleria del padre. Una figura nota nell’ambiente è l’affascinante stregone Howl, che si dice rubi il cuore alle belle donne. Un giorno, Sophie viene importunata da due guardie, ma Howl arriva in suo soccorso. A causa di questo episodio, la famigerata Strega delle Lande, un donnone ossessionato da Howl, decide di maledire Sophie, dandole l’aspetto di un’anziana signora. Sophie accetta la sua nuova condizione, nonostante tutto e decide di andare via di casa. Nel suo percorso, si ritroverà a convivere, in qualità di donna delle pulizie, con Howl nel suo castello errante, con il demone Calcifer (legato vitalmente allo stregone da un patto), con il giovane apprendista di Howl, Markl e con uno spaventapasseri dotato di empatia ma non di parola, soprannominato Testa di Rapa.

Howl ha il potere di trasformarsi in un enorme rapace oscuro: non vuole combattere questa guerra, anzi la rifugge tramite l’ausilio di diverse identità, ma allo stesso tempo, quando è trasformato, interviene in battaglia.

Ogni mutazione gli rende sempre più difficile tornare umano. Potrebbe arrivare il giorno in cui non sarà più in grado di farlo e sarebbe costretto a rimanere nella sua natura di uccello, per sempre.

È quello che è successo a diversi soldati, che vengono sganciati dai velivoli militari come fossero bombe. Ecco, di nuovo, il tema della spersonalizzazione, in questo caso in campo bellico. L’uomo diventa uno strumento della guerra, uno strumento di morte. È l’uomo che dimentica cosa sia il pianto, che dimentica cosa sia il nostro bene più prezioso: la nostra umanità.

La guerra stessa del film è senza un vero e proprio movente o senso e non porta a niente, se non alla morte e alla distruzione.

Straordinaria la figura di Sophie, che incarna la perseveranza e la saggezza, la cui tempra viene celata per la maggior parte del tempo dal suo aspetto anziano. Se ci fate caso, i momenti in cui Sophie torna giovane, sono quelli in cui non accetta passivamente ciò che le accade e che anzi, presa dalla propria forza d’animo, prende posizione e sogna, in contrapposizione con il personaggio di Howl e della Strega delle Lande. Howl è un ragazzo biondo, bello, affascinante, ma anche decisamente immaturo e superficiale, che addirittura si vorrebbe lasciare morire quando, per sbaglio, i suoi capelli vengono tinti di nero.

La Strega delle Lande ha la natura di una vecchia megera, viziata, insaziabile e incontenibile, nonostante si curi nell’aspetto per sembrare giovane. Eppure, quando sia lei che Sophie salgono la lunga scalinata che porta al palazzo reale, Sophie arriva in cima composta, seppur stanca, mentre la Strega delle Lande sembra quasi sciogliersi nel suo stesso sudore e non esita un attimo a rubare una sedia a Sophie per riposarsi, sebbene, tra le due, sembri quest’ultima la più anziana.

Redigere un’analisi per ogni film di Miyazaki in un unico pezzo risulta impossibile, senza scrivere un papiro chilometrico, perciò, per il momento, mi fermo qui, con la promessa di presentarne un altro in futuro sulle ulteriori opere di questo Maestro, compresa la sua ultima fatica, vincitrice dell’Oscar 2024 per il miglior film d’animazione, un lungometraggio arrivato dopo anni dall’annuncio del suo ritiro in qualità di regista e produttore, un lungometraggio dedicato al nipote: “Il ragazzo e l’airone”, che vi consiglio caldamente e che vi recensirò a breve.

Con il suo tratto inconfondibile, Miyazaki è riuscito a far innamorare il mondo intero della sua terra e delle sue tradizioni, portandoci in luoghi fantastici, con protagonisti incredibili che ben rappresentano le proiezioni dell’animo umano, i nostri conflitti morali ed etici, noi stessi e il nostro rapporto con la Natura che ci circonda. E noi non possiamo fare altro che ringraziarlo per questo immenso dono.

D’altronde, come dice lui: “È la vita di tutti i giorni a ispirarmi.”

Scritto da Camilla Marino