Chi di voi non ha visto o quantomeno non conosce “Jurassic Park”, il romanzo scritto da Micheal Crichton nel 1990 e poi trasformatosi nel capolavoro cinematografico firmato da Steven Spielberg nel 1993?
Per quei quattro gatti che hanno vissuto in una grotta ai confini della galassia (e che quindi non l’hanno visto), la trama, sommariamente, si concentra su come un magnate che “non bada a spese” (frase iconica di John Hammond, il personaggio in questione), decida di creare un bioparco unico nel suo genere: un’isola in cui vivono i dinosauri! E come avrebbe ottenuto i lucertoloni preistorici ormai estinti? Recuperando i campioni del loro DNA conservato nelle zanzare rimaste fossilizzate nei frammenti di ambra.
Molti di noi all’epoca e negli anni successivi hanno pensato che questa fosse pura fantascienza: clonare un dinosauro in laboratorio e riportarlo in vita? Chiaramente impossibile!
Eppure, mia madre mi dice sempre che, quando lei era piccola, anche i suoi coetanei pensavano che il telefono portatile nella macchina di James Bond fosse qualcosa di straordinario e irrealizzabile. E oggi disponiamo non solo di un cellulare, ma anche di androidi e IA con cui interagiamo e che, a quanto pare, è in grado anche di mandarci a quel paese con minacce di morte, se irritata!
Nel 2024 possiamo dire che il concetto su cui si costruisce l’elaborazione della storia di “Jurassic Park” non sia più una fantasia sci-fi, ma qualcosa di concretamente attuabile.
In che modo? Tramite il cosiddetto processo di de-estinzione, argomento chiave dell’articolo odierno, con, in conclusione, i miei perenni ricollegamenti al fantastico mondo dell’arte.
Che cos’è la de-estinzione? Conosciuta anche come risurrezione biologica o revivalismo della specie, si tratta di un processo scientifico volto alla ricreazione, artificiale o naturale che sia, di animali estinti.
Ma prima di addentrarmi nel piano puramente tecnico che supporta questo procedimento, è d’uopo cercare di capire quali e soprattutto quante siano le bestie che ormai non solcano più le nostre terre, non volano più nei nostri cieli e non nuotano più nei nostri mari, cercando di comprendere altresì le ragioni che hanno causato la loro scomparsa.
Tra gli animali spariti nel corso degli ultimi secoli, ne figurano alcuni che sono sicura molti di voi avranno sentito nominare almeno una volta.
Il Quagga è uno di questi. Appartenente alla famiglia delle zebre e originario del Sudafrica, aveva una caratteristica peculiare: presentava il classico manto a strisce bianche e nere solo nella parte anteriore del corpo. Caratteristica che lo rese, sfortunatamente, un bersaglio molto ambito da parte dell’Uomo nel corso dell’Ottocento, per ricavarne pelli e pellicce. Il suo ultimo avvistamento, risale infatti al 1878. Un esemplare imbalsamato è esposto al Museo di Storia Naturale di Milano, in una delle prime sale… E io lo so, perché non solo sono di Milano, ma anche perché sono innumerevoli le volte in cui ho passeggiato per i corridoi di quell’appassionante museo sin dall’infanzia.
C’è poi il famoso e classico Dodo, l’uccello non volatile che oggigiorno ha ispirato un celebre brand di gioielli. Endemico dell’isola di Mauritius, a est del Madagascar, la sua scomparsa è da attribuire alla colonizzazione olandese che non solo lo cacciò, ma accelerò il processo di estinzione con l’introduzione nell’ambiente di specie invasive come i maiali, i gatti, i ratti e i macachi carnivori, che si cibavano delle sue uova. Complice un sistema di riproduzione piuttosto lento, il suo ultimo avvistamento è riportato nel diario del marinaio naufrago olandese Volkert Evertsz, nel 1662.
Proseguendo nella lista, ci imbattiamo nella Tigre della Tasmania, nota anche come Tilacino. No, non è Taz dei Looney Toones, quello è il Diavolo della Tasmania, ancora oggi presente in natura, ma comunque in pericolo di estinzione, anche se entrambi hanno in comune il fatto di essere marsupiali, dunque provvisti di marsupio come il canguro. Esso veniva cacciato perché considerato una minaccia per gli allevamenti e per i cani da compagnia dei coloni europei. L’ultimo esemplare, di nome Benjamin, morì tristemente nella gabbia dell’Hobert Zoo (Tasmania) il 7 settembre del 1936. Causa del decesso: escursione termica, morì di freddo perché non era stato accompagnato nel suo alloggio per la notte.
O ancora, la Tigre di Giava, che nel caso non si fosse intuito dal nome, era originaria dell’isola di Giava, in Indonesia. Poteva arrivare fino a 2,45 m di lunghezza e la sua scomparsa, avvenuta nel 1994, fu per l’aumento dell’urbanizzazione, comportando la diminuzione delle sue prede.
Tra le creature acquatiche, una specie ormai inesistente è il Lipote, un delfino che viveva nel fiume Yangtze, in Cina, fino al 2006, quando l’inquinamento massiccio, la pesca intensiva e le inefficaci e tardive prese di posizione per la sua salvaguardia, gli costarono la vita.
Passando al mare, è noto che non ci sia più neanche la Foca monaca dei Caraibi, avvistata per l’ultima volta nel 1852, cacciata dai coloni ingordi suo prezioso grasso.
Nel 2018, malauguratamente, è stato il turno dei Rinoceronte bianco, la cui estinzione è stata indotta dal bracconaggio, in quanto i corni di questo e degli animali facenti parte della stessa famiglia, sono molto redditizi. Le fotografie di cacciatori avidi, senza scrupoli e crudeli che posano accanto alla carcassa della povera bestia, con il corno già amputato, circolano ancora oggi sul web.
Recentemente, nel 2020, è scomparso il Pesce spatola cinese, conosciuto anche come Panda gigante dei fiumi. Non sono servite le misure prese dal governo nel 1983 per la sua conservazione, dato che l’inquinamento, la pesca e la costruzione delle dighe, gli sono stati fatali.
E poi, dulcis in fundo (ma non così dulcis), il Grizzly della California, che in qualche modo rappresenta anche un vessillo all’ipocrisia. Esso è infatti il simbolo dello Stato della California, tanto da svettare fieramente sulla loro bandiera. Forse gli americani si sono dimenticati che questo animale è stato sterminato come se nulla fosse proprio da loro, cacciato fino agli anni ’20 del Novecento, per estendere i confini delle metropoli e per farlo combattere contro i tori all’insegna dell’intrattenimento.
Ma commettere “genocidi animaleschi” è il nostro forte sin dall’antichità. Ne sono una prova la scomparsa del Mammut lanoso e della Tigre con i denti a sciabola. Manny e Diego de “L’Era Glaciale” ci stanno giudicando con sdegno e hanno ragione.
Tuttavia, entrambi stavano già diminuendo per via del cambiamento climatico. L’Uomo ha semplicemente accelerato il processo predando gli ultimi esemplari.
E queste che vi ho appena esposto sono solo alcune delle specie svanite dal nostro pianeta nel corso degli ultimi secoli.
Come avrete avuto modo di riscontrare, l’estinzione di alcune di queste, è avvenuta anche ultimamente. Tale informazione non deve purtroppo stupire: secondo la IUCN (Unione Internazionale per la conservazione della natura), solo negli scorsi 10 anni abbiamo perso circa 160 specie.
È un numero a dir poco folle, considerando che questa sia una statistica sottostimata, perché bisognerebbe contare anche tutti quei gruppi faunistici catalogati come “minori”.
Non ho ancora menzionato, infatti, la Testuggine dell’Isola di Pinta (Galapagos), il cui unico membro rimasto è deceduto nel 2012. Oppure, la sottospecie dello Stambecco dei Pirenei, venuto a mancare nel 2000. L’Alca Impenne dell’Oceano Atlantico, un volatile della famiglia dei pinguini che risiedeva nel Nord Atlantico e che è stato vittima di bracconaggio per scopi alimentari e per la preziosità del suo piumaggio. Persino il Rospo dorato e il Pipistrello dell’Isola di Natale (Oceano Indiano) non sono esenti da questo ignobile catalogo, passati a miglior vita rispettivamente nel 2004 e nel 2017.
Il numero di animali tenuti sott’occhio dalla IUCN è in costante aggiornamento, visto che, come avrete inteso, il motivo principale di questi decessi è ovviamente l’Uomo, a prescindere che il suo operato sia diretto o indiretto.
Lo conferma il report pubblicato dal WWF nel 2021, recante il titolo “Estinzioni: non mandiamo il pianeta in rosso”. Secondo quanto affermato in questo scritto, siamo nel pieno della sesta estinzione di massa, con un tasso di scomparsa di specie animali e vegetali 1000 volte superiore a quello naturale. In poche parole, l’essere umano rende mille volte più veloce la cancellazione di chi è più sfortunato e fragile.
Al momento, esiste una vera e propria Lista Rossa della IUCN delle specie minacciate, che non solo espone quali sono gli individui di fauna e flora, compresi i funghi, che rischiano di venire eliminati globalmente, ma che rende noti quelli che sono i criteri per una corretta salvaguardia dei suddetti. In primis, tra i rimedi, figurano rigide limitazioni se non divieti, di caccia, programmi di riproduzione e reintroduzione, la protezione del loro habitat, nonché il coinvolgimento della comunità.
Tra gli animali a rischio attualmente, si ravvisano:
- Il Rinoceronte di Giava, di cui rimangono soltanto 70 esemplari
- La Vaquita, una piccola focena che vive nel Golfo della California.
- Il Pesce Totoaba, la cui vescica natatoria è molto richiesta nella medicina tradizionale cinese
- Il Leopardo dell’Amur, residente nell’estrema Russia Orientale e in alcune zone della Cina, la cui popolazione è ridotta a 100 esemplari
- Il Rinoceronte Bianco Settentrionale, restano solo due femmine!
- L’Orango di Sumatra, minacciato dai disboscamenti in favore della coltivazione delle palme da olio e dell’urbanizzazione
- Il Gorilla di Pianura Orientale, il primate più grande del continente africano
- La Tartaruga di Hawksbill, che come le sue simili rischia la vita a causa dell’inquinamento plastico
- La focena senza pinne dello Yangtze, messa in pericolo dal degrado ambientale e con solo 1000 individui rimasti
- Il Fiscal di São Tomé, un uccellino la cui estinzione è dovuta, per di più, all’introduzione di predatori, e di cui ne rimangono solo 150
Senza contare gli orsi polari, i panda, le tigri, gli elefanti, gli orsi bruni, le balene e tutti quelli che sentiamo nominare ogni giorno.
Possiamo contribuire alla salvaguardia del regno animale, adottando a distanza, attraverso il WWF, una o più bestie, tramite donazioni singole o mensili. Ogni centesimo viene sfruttato per la riqualificazione dell’habitat di ciascuno, l’installazione di aree protette e di corridoi ecologici e la rimozione di agenti inquinanti. Inoltre, il WWF afferma che ogni donazione contribuirà al sostenimento dei Centri di Recupero Animali Selvatici (CRAS). Questa meravigliosa iniziativa è disponibile a questo link (aggiornamento nel 2023).
Ma ora, torniamo alla de-estinzione, dopo questa deprimente ma comunque necessaria nomenclatura.
In cosa consiste, sostanzialmente? In quale maniera l’Uomo può riportare in vita animali non sopravvissuti sulla faccia della Terra?
Innanzitutto, quello della de-estinzione, è un progetto che interessa a diverse aziende nel mondo, tra cui la statunitense Colossal Laboratories & Biosciencies, che ha deciso di investire la bellezza di 150 milioni di dollari per de-estinguere il dodo. Cliccando qui, potete trovare la loro pagina.
Per il compimento di questo progetto, serve dapprima un frammento di DNA dell’animale che si vorrebbe riportare in vita. Servirà infatti come “libretto delle istruzioni” per la realizzazione del codice genetico corretto. So cosa state pensando e vi rispondo: no, non è possibile, almeno per il momento, de-estinguere i dinosauri, poiché il DNA contenuto nelle zanzare fossilizzate nell’ambra, ha una durata massima di un secolo. Dunque, le informazioni genetiche sui dinosauri sono del tutto scomparse.
Tuttavia, anche se antichi, animali come il mammut, la tigre con i denti a sciabola e il dodo sono recuperabili grazie agli studi di Svante Pääbo, genetista svedese che vinse il Premio Nobel per la Medicina nel 2022 e che è considerato il padre della paleogenomica. Questa branca della scienza si occupa dello studio della ricostruzione e dell’analisi delle informazioni genomiche nelle specie estinte. Il DNA di queste creature può essere recuperato poiché ben conservato, per esempio, dalle ossa o dagli esemplari imbalsamati esposti nei musei. Alcuni mammut sono rimasti perfettamente congelati nel ghiaccio siberiano.
Non basta comunque il DNA della bestia presa in esame: serve il codice genetico dell’animale vivente più simile a quest’ultima.
Menzionando il Dodo, il suo parente più stretto risulta essere il piccione delle Nicobare (Oceano Indiano).
Una volta ottenuti e sequenziati entrambi, bisognerà modificare il DNA degli spermatozoi e delle cellule uovo del piccione, per renderli identici a quelli del Dodo.
La tecnologia dietro a tutto questo processo è la CRISPR cas-9, una tecnica di editing genetico che utilizza una proteina contenente un frammento di RNA. Se vogliamo immaginarlo visivamente, possiamo paragonarlo a una sorta di forbice con una guida che indica dove e cosa sostituire.
La fecondazione avverrà ovviamente in vitro. Nel caso del Dodo, si impianterà l’embrione all’interno di una gallina (è più semplice ottenere un uovo, grazie ai nostri allevamenti).
Questo meccanismo di clonazione attraverso madri surrogate, è stato ideato dal saggista statunitense Stewart Brand, ma il processo di de-estinzione conta ulteriori tecniche, come l’allevamento selettivo, che consiste nel ricercare le informazioni genetiche identiche all’animale estinto, nelle creature che camminano ancora tra noi, per poi vagliare quelle idonee all’accoppiamento, riottenendo quindi la bestia perduta.
Oppure, l’evoluzione iterativa, ovvero quando un animale scompare, ma viene sostituito, dopo un certo periodo di tempo, da un altro quasi identico.
In lizza per la de-estinzione compaiono:
- La Colomba migratrice
- Il Moa (uccello non volatile)
- Il Tympanuchus cupido cupido (una specie di pollo da prateria che sono convinta vi farà battere il cuore)
- Il Dodo
- L’Huaia (uccello)
- Il Moho (uccello)
- L’Uccello Elefante
- Il Rospo dorato
- Il Mammut lanoso
- Lo Stambecco dei Pirenei
- L’Uro (bovino)
- Il Quagga
- Il Tilacino
- Il Leone delle caverne
- Il Bisonte delle steppe
- Il Maucaruchenia (mammifero sudamericano dotato di tre dita)
- Il Rinoceronte lanoso
- Il Toxodon (mammifero ungulato, come giraffe e rinoceronti)
- L’Homo Neanderthalensis… eh già, a quanto pare vorremmo de-estinguere il nostro antico cugino!
C’è da dire che i primi tentativi di “resurrezione” di uno di questi animali, nello specifico l’uro, risalgono agli anni ’30 del Novecento, per mano dei fratelli Luz e Heinz Heck, che perseguirono lo scopo tramite il backbreeding, ossia degli incroci ben studiati e mirati tra le razze bovine in vita. L’esperimento fallì, ma come avete appena letto, l’umanità non demorde nel raggiungimento di tale obiettivo.
Ora, dopo aver compreso di cosa si tratta, è importante sottolineare che la de-estinzione non è un procedimento semplice e immediato. Anzi, comporta tutta una serie di problematiche di non poco conto.
Prima fra tutte, l’effettiva riuscita di una clonazione. I conati succeduti fino a oggi, almeno per quanto riguarda il regno animale, sono finiti tutti in tragedia, con creature che vivevano al massimo per qualche giorno, prima di morire per complicazioni fisiche. Un esempio lampante è stato lo sforzo di de-estinguere lo stambecco dei Pirenei nel 2003, in virtù dell’operato dei ricercatori del Parco Nazionale di Ordesa a Monte Perdido (Spagna): venne creata, sì, la bestia, ma questa visse pochi minuti, giacché affetta da una malformazione polmonare. Oltretutto, questo fu l’unico embrione su 497 ad arrivare alla nascita.
Al momento, l’unico successo è stato ottenuto con la clonazione di una pianta estinta, introdotta nuovamente in natura: la Clyndocrine lorencei, delle Isole Mauritius.
Inoltre, come è facile intuire dalla disquisizione scientifica sopra riportata, non potremo mai ridare la vita al “vero” Dodo o al “vero” Mammut, ma a delle loro copie parzialmente modificate.
Abbiamo capito, infatti, che per poter avviare una clonazione è necessario comunque il DNA del loro parente più stretto, ragion per cui il nascituro erediterà le caratteristiche di entrambi i genitori.
Vi ricordate la diatriba sui dinosauri di “Jurassic Park”? Dove c’era chi additava i lucertoloni del film, accusando gli sceneggiatori e gli effetti speciali di non essere stati fedeli al loro reale aspetto? Probabilmente, questi individui si sono dimenticati che John Hammond, per porre un rimedio alle interruzioni e alle imperfezioni del codice genetico del DNA ritrovato nell’ambra, si è servito di quello di alcuni rospi. Ergo, quelli che vediamo nel film non sono i “veri” dinosauri di un tempo, ma i loro discendenti geneticamente modificati.
E sempre rimanendo in tema “Jurassic Park”, un quesito che propone il professor Grant concerne l’inserimento di una specie appositamente selezionata per l’estinzione in un ambiente a essa estraneo, con un habitat e delle creature con cui non ha mai avuto niente a che fare. Quali possono essere le conseguenze?
Questo fatto potrebbe potenzialmente procurare a sua volta l’estinzione di una specie che ancora sopravvive, un po’ come è successo in passato con l’introduzione di predatori che non facevano parte di quel determinato contesto o zona. Oppure, con le condizioni climatiche e ambientali odierne, la rinnovata specie potrebbe soccombere in ogni caso.
Insomma, sarebbe lo sconvolgimento dell’ordine naturale.
Analizzando poi il lato economico, probabilmente si investirebbero milioni di dollari per esperimenti dai risultati dubbi, a svantaggio delle somme che potrebbero essere invece impiegate per la salvaguardia di ciò che abbiamo oggi.
Per non parlare delle questioni etiche che verrebbero sollevate da tale iniziativa. Per citare sempre la saga di “Jurassic Park” (nello specifico, il terzo capitolo): “È così che si fanno i dinosauri? / No, è così che si gioca a fare Dio.”.
Al contrario, lo zoologo australiano Michael Archer, sostenitore di questa campagna, afferma: “Se è chiaro che abbiamo sterminato una specie, allora penso che non solo abbiamo un obbligo morale di riportarla in vita, ma un imperativo. Dobbiamo fare qualcosa, se possiamo.”
Darwinismo docet?
A ogni modo, non tutto il male vien per nuocere.
La de-estinzione potrebbe anche rafforzare gli ecosistemi già esistenti, se non rinnovare gli antichi.
Uno degli obiettivi, in effetti, sarebbe quello di far riemergere l’ecosistema del Pleistocene, una ricostruzione ipotizzata dal geofisico russo specializzato in ecologia artica e subartica Sergey Zimov nel 1998.
La megafauna del continente Euroasiatico, conosciuta anche come “steppa dei mammut”, forniva le condizioni ambientali ottimali per la proliferazione di salici ed erbe alte che oggi sono stati sostituiti dalla tundra e dai licheni.
L’avvento della steppa manterrebbe il permafrost, abbassando la temperatura del suolo artico e dunque impendendone lo scioglimento. Di conseguenza, esso non rilascerebbe i gas serra e il metano contenuti al suo interno, combattendo dunque il cambiamento climatico.
Tra l’altro, parlando di specie estinte, è possibile che qualcuna di esse ci sia sfuggita, visto che di molte non rimangono altro che testimonianze tramandate o bozzetti. In questo senso, l’arte ci può venire incontro.
Come? Vi pongo il caso delle Oche di Meidum, protagoniste di un dipinto su intonaco proveniente dalla mastaba di Nefermaat e Atet, il figlio del Faraone Snefru (Antico Egitto, circa 4600 anni fa).
In quest’opera, considerata uno dei capolavori dell’arte egizia, sono presenti, appunto, delle oche che, nel 2021, hanno solleticato la curiosità di Anthony Romilio, ricercatore dell’Università del Queensland, di Brisbane (Australia), presso la School of Chemistry and Molecular Bioscience.
Attraverso attente analisi, egli ha scoperto che quel dipinto rappresentava una specie di oca fino a quel momento sconosciuta! Ciò ha portato gli scienziati a interrogarsi sull’antico ecosistema del Sahara, diverso rispetto a oggi.
Potete leggere la sua ricerca in merito cliccando qui.
Ovviamente non si tratta della rappresentazione atavica delle nostre care amiche bestie. Lo sono, però, le pitture rupestri! Le grotte di Lascaux appaiono ricche di dipinti ritraenti creature di ogni sorta, compreso l’uro. Non venivano realizzate unicamente scene di caccia: gli animali erano paragonati a veri e propri protettori, che potevano essere evocati tramite la pittura come buon auspicio.
In tutte le culture antiche, poi, gli animali ricoprivano un ruolo fondamentale nel folklore. Riprendendo le divinità egizie, la maggior parte di queste era impersonata da un essere con sembianze antropomorfe. Il dio Ra con la testa di falco o Anubi con la testa di sciacallo, per esempio.
E che dire degli Achei? Gli abitanti dell’Olimpo, quando scendevano tra i mortali (soprattutto per fare della ginnastica da letto con loro, argomento di cui vi ho parlato in questo articolo), si trasformavano spesso in esseri faunistici. Zeus, per esempio, ogni tanto era un toro e ogni tanto era un cigno.
Concorderete anche voi che, da quel momento in poi, gli animali sono stati praticamente onnipresenti nell’arte, sia come protagonisti che come simbolismi. È letteralmente impossibile elencare tutte le simbologie legate a ciascuno di essi, non basterebbe neanche un articolo completamente dedicato all’argomento.
Pertanto, mi limiterò a esporvi alcuni dei più noti.
Il cavallo è uno di questi, da sempre raffigurato al fianco dell’uomo, non tanto in qualità di animale da lavoro, quanto invece di destriero cavalcato nel corso di una qualche battaglia o da un affiliato a un’importante stirpe, come nel trittico su tavola di Paolo Uccello, “Battaglia di San Romano”, del 1438, o del “Ritratto del duca di Olivares a cavallo”, olio su tela di Velazquez del 1634. Da ciò, il cavallo è sempre stato sinonimo di eroismo, nobiltà e potere.
Un altro animale interessante è sicuramente il cervo, il cui significato intrinseco cambia a seconda della cultura. Nel panorama greco e romano antico, esso era ricollegabile alla dea della caccia Artemide, mentre con il Cristianesimo assume la valenza delle anime pie e credenti. Così come il simbolo di Cristo per eccellenza è l’agnello o anche l’ariete, contemporaneamente sinonimo di fecondità e forza.
C’è poi il magnifico elefante, molto comune nell’arte e nella cultura orientale. In particolar modo, in India, il dio Ganesh prende le sue sembianze, orbene il pachiderma è simbolo di regalità.
Sempre nel Cristianesimo, ogni tanto, può essere anch’esso l’impersonificazione di Cristo, mentre con il suo pesante piede schiaccia il serpente, ovvero Satana.
Curiosa, poi, l’evoluzione dell’iconografia del gatto. Dapprima adorato dagli Antichi Egizi, in quanto guardiano del regno dei morti, per poi comparire nei bestiari del Medioevo in forma antropomorfa, in qualità di artista e lavoratore. E infine, rappresentante dell’inganno e del peccato, come accade nell’olio su tavola di tiglio di Antonello da Messina, “San Girolamo nello studio”, del 1474-1475. In questa metaforica opera, compaiono altre due creature: un pavone, simbolo di immortalità (ma con la coda chiusa, poiché l’immortalità va conquistata) e una coturnice (l’uccello accanto), rappresentante l’azione redentrice di Gesù.
Queste chiavi di lettura, peraltro, non sono da considerarsi prettamente universali. In alcuni contesti, gli animali possono essere semplici animali da compagnia o essere lo specchio dei vizi e delle virtù dei loro proprietari umani.
È il caso del capolavoro di Leonardo da Vinci, “Dama con l’ermellino”, olio su tavola del 1488-1490. L’ermellino bianco, che può anche essere un furetto, esprime il candore di Cecilia Gallerani, la nobildonna protagonista del ritratto.
Ho parlato del gatto. Ora parlo del cane, da sempre il miglior compagno dell’Uomo. Sono diverse le opere d’arte contemporanea che si concentrano sui canidi.
Come “A friend in need”, del pittore statunitense Cassius Marcellus Coolidge, del 1903, dove una muta di cani gioca a poker. In principio, doveva essere semplicemente una burla, ma alla fine il quadro è diventato una vera icona.
Anche Picasso ha contribuito a mettere in scena un legame simbiotico tra l’essere umano e l’amico cane, con il suo “Due acrobati con cane”, appartenente al suo Periodo Blu, 1905. In questa composizione decisamente malinconica, il cane e il suo piccolo padrone condividono le stesse emozioni.
Mentre in “Autoritratto con cane” di Ligabue, 1957, il fidato compagno a quattro zampe non solo condivide l’espressività facciale del compagno umano, ma anche lo stesso aspetto, dato che le pieghe della giacca richiamano al manto del cane.
E se vogliamo vedere un’opera a parte, ricca di simbologia bestiale, basta osservare “Autoritratto con collana di spine e colibrì” di Frida Kahlo, del 1940. Qui, Frida volle mettere in luce il suo dolore più profondo, la sua sofferenza più tragica provocata da un gravissimo incidente che non solo compromise per sempre la sua salute, ma che fu fonte di ispirazione per gran parte della sua arte. Il colibrì nero morto, intrappolato nelle spine che le feriscono la pelle, rappresenta il suo sentirsi in trappola sia emotivamente che fisicamente. La scimmia ragno che si arrampica su di lei, è il suo desiderio di avere un figlio, mentre il gatto, in questo caso, ha un significato ambivalente: il male e la rigenerazione, dettata dalle classiche nove vite del felino.
In conclusione, il regno animale è una componente importantissima per il nostro pianeta, ma oltremodo per la nostra sopravvivenza. È fondamentale da parte nostra preservare ogni forma di vita, che sia essa appartenente alla fauna o alla flora.
Il nostro operato non fa altro che arrecare danno al delicato ecosistema, che tuttavia riesce sempre a trovare un equilibrio, seppur a fatica. La de-estinzione può essere la giusta soluzione? Forse, ma è necessario studiarne ogni singolo fattore, per poterne usufruire in maniera consapevole e costruttiva e non cadere, come sempre fa la nostra specie, nell’autodistruzione.
Vero anche che persino John Hammond non aveva di certo intenzione di far divorare la gente dai suoi dinosauri. Semplicemente, è accaduto ciò che tanto professava l’intramontabile professor Malcolm: la teoria del caos.
Noi non sappiamo in alcun modo cosa potrà accadere riportando in vita un animale estinto e le conseguenze che questa azione originerà.
È certo però un pensiero, usando ancora le parole di Malcolm: “La vita… vince sempre.”… speriamo!