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Quanti di voi hanno visto la serie Netflix “Dahmer”? Pensandoci, sento dal popolo ergersi una voce: capolavoro. Ma per quei due gatti che non l’avessero ancora visto, questo serial, ormai diventato pietra miliare del panorama televisivo, racconta dettagliatamente e, paradossalmente, “umanamente” la storia del serial killer Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come “Il cannibale di Milwaukee”. Avete capito bene: lui divorava le sue vittime, ne cucinava le carni e ne conservava i resti in casa sua.
Ma oggi non sono qui per parlarvi di lui nello specifico, sicuramente un giorno scriverò un articolo in merito, ma quel giorno non è oggi.
Questa premessa serve solo per farvi capire da dove sia scaturito il mio interesse nel voler approfondire quello che, secondo me, è uno dei crimini più violenti, macabri e perversi che si possa effettuare, qualcosa che mi fa venire i brividi al solo pensiero: il cannibalismo o antropofagia.
E se pensate che il nostro vecchio Dahmer sia un pazzo sporadico, dovrete ricredervi, perché la storia dei serial killer è costellata di mostri del genere: F.H.K. Harmaann, Albert Fisch, A.R. Chikatilo… la lista è lunga e in futuro vi parlerò di tutti loro.
E voglio presentarvi, prima di addentrarci in un’analisi più dettagliata di questo atto ripugnante, un assassino che, probabilmente, non tutti conosceranno: sto parlando di Issei Sagawa.
Ma chi è costui? Sagawa è un giapponese nato a Kobe nel 1949, cresciuto in una famiglia benestante e senza problemi di alcun tipo. Beh… i problemi non riguardavano di certo i suoi genitori, era lui quello deviato, già fin dall’infanzia: le sue condizioni di salute piuttosto delicate (era stato affetto da enterite quando era un neonato) mescolate a un carattere piuttosto chiuso e introverso, tendevano a isolarlo dagli altri bambini. E menomale, considerato che i primi desideri di consumare carne umana si svilupparono in seguito alla visione della coscia nuda di un suo compagno di classe in prima elementare. Il suo pensiero a quella vista fu, a detta sua: “Sembra delizioso.”
Proseguendo lungo la linea temporale della sua esistenza, possiamo anche notare come durante l’adolescenza, anziché sperimentare un’attrazione sana nei confronti del sesso, decise di provare la zoofilia con il suo cane (povera bestia…). Tutto ciò, sempre fantasticando di mangiare parti del corpo delle donne. In merito a questo feticcio, Sagawa ha sempre incolpato le attrici e le donne famose della cultura occidentale, come Grace Kelly (era fissato con lei): il suo impulso cannibalesco era alla pari di quell’attrazione sessuale che gli uomini etero sperimentano osservando una bella donna.
Le sue dichiarazioni furono: “È solo un feticcio. Ad esempio, se un uomo normale ama una ragazza, sentirebbe naturalmente il desiderio di vederla il più spesso possibile, di starle vicino, di annusarla, di baciarla, giusto? Per me, mangiare è solo un’estensione di questo. Francamente, non riesco a capire perché tutti non sentano questo bisogno di mangiare, consumare altre persone.”
Da ciò che si evince dai suoi racconti, in realtà, lui non aveva un vero e proprio desiderio di morte nei confronti delle sue possibili vittime, lui voleva “solo” “rosicchiarne la carne”. (Domanda: sono solo io che trovo perversamente ironico e mi scuso per questo pensiero, il fatto che questo cannibale sia nato a Kobe? Sapete, no? Carne di Kobe…)
A prova di questa sua dichiarazione, quando aveva 24 anni ed era studente presso l’Università Wako di Tokyo, decise di seguire una studentessa tedesca, aspettare che si mettesse a dormire, per poi intrufolarsi nella sua camera, tagliarle letteralmente una fetta dalle sue natiche e andarsene. Fortunatamente, la malcapitata si svegliò appena in tempo, ancora prima che questo pazzo potesse cominciare l’opera. Lo denunciò, credendo di essere scampata a un “semplice” stupro (quando si dice “Che culo!”…). Le accuse, però, vennero ritirate dopo che il padre di Sagawa, uomo facoltoso, pagò la somma necessaria per risarcire la povera ragazza.
Nel 1977, quando aveva 27 anni, Sagawa si trasferì a Parigi, per conseguire un dottorato di ricerca (studiava letteratura) alla Sorbona. In quel periodo della sua vita, nonostante egli avesse dichiarato di non aver mai avuto il vero e proprio desiderio di uccidere qualcuno, era solito portare prostitute in casa sua, cercando di sparargli alla nuca con una pistola. Ma ciò non gli riuscì mai, qualcosa lo bloccava e lo paralizzava non appena toccava il grilletto (il sollievo che provo nei confronti di queste donne scampate a un destino orribile è indescrivibile).
Sagawa non ha mai saputo spiegarlo, ma nel suo cervello si accese come un interruttore, qualcosa che lo spingeva a voler compiere questa sorta di rituale: uccisione e successiva cannibalizzazione.
Sfortunatamente, fu la povera Renée Hartevelt, una sua amica e compagna di università, la vittima sacrificale: la attirò in casa sua, con la scusa di voler studiare insieme, prese un fucile e la uccise con un colpo alla testa. Dopo un primo momento di sincero rimorso, durante il quale pensò di chiamare immediatamente un’ambulanza, Sagawa fu pervaso da un’esaltazione senza pari: stava realizzando un “sogno” che covava da 32 anni.
Prima di cominciare a segare e tagliare parti del suo corpo, Sagawa lo violentò.
Alcuni pezzi vennero inghiottiti crudi, mentre altri vennero cucinati. Ogni passaggio veniva meticolosamente registrato da Sagawa su una cassetta audio, nonché immortalato attraverso decine di fotografie fatte al cadavere a ogni nuova asportazione. Anche le “pietanze” vennero fotografate: uno dei suoi piatti consisteva in un seno, con contorno di piselli e patate. Hannibal Lecter docet.
Successivamente, i vicini di casa dichiararono alle forze dell’ordine che sentivano le grida di piacere, euforia e felicità del giovane giapponese, mentre compiva questi atti a dir poco osceni.
Questo mostro venne fermato dalla polizia francese qualche giorno dopo, mentre cercava di disfarsi di ciò che rimaneva del corpo: le parti “scartate” erano state messe all’interno di due valigie che, secondo quanto aveva organizzato Sagawa, sarebbero dovute essere gettate in un lago del Bois de Boulogne. C’era solo una piccola falla in questo piano diabolico: le valigie grondavano sangue.
Ovviamente, Sagawa venne internato in un istituto psichiatrico.
Ha scritto un racconto che descrive dettagliatamente l’omicidio e la cannibalizzazione, intitolato “Nella nebbia” (esiste anche un libro scritto da Antonio Pagliaro, intitolato “Il giapponese cannibale”), nonché opere manga che ritraggono i fatti. Ha partecipato come comparsa in alcune apparizioni soft-porn, mentre morde la pelle e la carne degli altri attori e… santo cielo, non ci crederete mai… ha scritto recensioni di ristoranti per la rivista giapponese Spa!
Ma è ovvio! Perché incaricare un Gordon Ramsay del Sol Levante quando puoi andare a chiedere pareri di cucina a Hannibal Lecter?
Attualmente, Sagawa è ancora vivo, nonostante un ictus cerebrale lo abbia costretto all’invalidità e alle cure costanti da parte del fratello.
Ma attenzione… qui arriva la parte “tragicomica” della situazione: in Francia, egli venne dichiarato pazzo, quindi incapace di sostenere un processo (e vorrei ben dire! Come può non essere pazzo un tizio il cui unico rimorso è non essersi mangiato la sua amica da viva?!). Di conseguenza, le accuse di omicidio vennero ritirate dalle autorità francesi. Nel frattempo, in Giappone, Sagawa venne riesaminato e si concluse che egli era sano di mente e che l’unica motivazione che lo aveva spinto a compiere questo crimine orrendo fosse la sua perversione sessuale (e dici poco?).
Ma siccome il tribunale francese non rilasciò mai i documenti inerenti al caso alle autorità competenti in Giappone, Sagawa non poteva essere legalmente detenuto nel suo Paese natio.
Risultato: per un cavillo legale assurdo, questo cannibale è oggi a piede libero!
Ma aspettate, perché qua arriva “il meglio”: egli lucrò sul suo crimine, diventando praticamente una figura piuttosto popolare, una sorta di celebrità.
Quando mi sono imbattuta in questo caso, mi è venuto spontaneo e doveroso informarmi in maniera più approfondita sul tema del cannibalismo e voglio condividere con voi ciò che ho scoperto.
Cominciamo con le origini della parola “cannibalismo”: sembra che essa abbia le sue fondamenta dall’approdo di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo. La prima tribù con cui entrò in contatto fu quella degli indiani Arawk. Questi, nel corso delle loro conversazioni, utilizzavano molto spesso una parola: “caribe”, che vorrebbe dire “coraggioso”. Colombo commise l’errore di abbinare questa parola al termine “caniba/canis”, il cui significato era “cinocefali”, ovvero una descrizione fisica piuttosto canina degli uomini selvaggi. Da qui nacque l’espressione “cannibalismo”, che venne associata in seguito alle popolazioni dell’Amazzonia e alla loro apparente brutalità. Ne conseguì che il cannibalismo acquistò il significato odierno di “uomo che mangia altri uomini”. (Se ci fosse stato Google Translate ai tempi di Colombo, tutto questo casino non sarebbe successo)
Nel corso degli anni, molti psicologi si sono posti domande sulle vere origini del cannibalismo, su che cosa scatti nel cervello di un individuo per arrivare a compiere qualcosa di così perverso e sbagliato.
Prima di tutto, dobbiamo ringraziare Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, che ci ha fornito uno spunto niente male per comprendere meglio questo lato oscuro della razza umana.
Infatti, tra le varie fasi di sviluppo che un bambino attraversa in fase di crescita, Freud afferma che la prima di queste sia la fase orale, scaturita dall’allattamento al seno. La bocca è una zona erogena e, se stimolata in un certo modo, può provocare piacere, piacere che scaturisce per la prima volta con il contatto diretto del latte materno. Non solo, esso rappresenta una fonte di nutrimento indispensabile per la sopravvivenza del neonato. Successivamente, al bambino viene spontaneo, oltre che a succhiare la tetta, cercare di morderla.
Ne consegue che il cannibalismo non è altro che un irrefrenabile impulso di appropriarsi della persona, della vittima, cercando di interiorizzarla dentro di sé.
Insomma, nel caso dei serial killer cannibali, teoricamente (e sottolineo teoricamente, poiché la psichiatria non è una scienza esatta) qualcosa è andato leggermente storto con la madre, durante le varie fasi di sviluppo. (Fonte guidapsicologi.it)
Ewald Volhart, antropologo del Novecento, distinse ben quattro tipi di cannibalismo: profano, giuridico, magico e rituale.
Sinteticamente: il primo vede la carne umana come un semplice alimento uguale a tanti altri (mi immagino già la scena al ristorante: “Io prendo il fritto misto, tu cosa vuoi prendere, cara?” “Per me solo una fetta di culo, vorrei stare leggera stasera, grazie.”); il secondo rappresenta, in alcune tribù, una vera e propria punizione o condanna per chi è colpevole di un grave crimine; il terzo vede il cannibalismo come un metodo di assorbimento delle energie e delle capacità della vittima, come per esempio gli Aghori, dei monaci esiliati in India. Essi bevono da teschi umani, si nutrono di carne dei loro simili e masticano teste di animali vivi.
Queste pratiche più estreme le giustificano con il dover assorbire lo “shakti” del defunto, per assimilare la sua energia vitale e i suoi poteri. Il quarto tipo indica una vera e propria ritualità religiosa che comprende il consumo di carne umana.
Naturalmente, il cannibalismo criminale è incluso nella categoria del profano.
Ritornando al punto delle tribù, in alcune di queste il cannibalismo è addirittura ancora in corso: il clan dei Korowai, della Nuova Guinea, considera la carne umana al pari di come noi consideriamo quella di maiale. Loro pensano che gli uomini siano uccisi da un uomo strega, il Khakhua, che arriva dall’inferno: il loro scopo è quello di arrivare a mangiare questa misteriosa entità, che ne ha provocato la morte, tagliando gli arti e i vari pezzi. Mangiano tutto, a eccezione di: denti, ossa, capelli, unghie e pene. La loro parte preferita è il cervello.
Nutrirsi dei propri simili, in questa tribù, è vietato sotto i 13 anni.
Nella storia dei serial killer, solitamente, i cannibali sono quelli più disorganizzati, violenti e impulsivi. Disdegnano le armi da fuoco, optando invece per armi bianche, corpi contundenti o contatto diretto con la vittima per ucciderla. Infatti, spesso il cannibalismo è, come abbiamo visto, una perversione sessuale che in questi soggetti diventa talmente pressante e irrefrenabile da far commettere loro uno o più omicidi. Il piacere che deriva dall’inghiottire una persona è pari a quello di un orgasmo ottenuto da un rapporto sessuale. Non a caso, nella psicologia criminale, il coltello è una sostituzione del fallo che penetra la carne.
Curiosamente, esiste una vera e propria parafilia che prende in considerazione proprio l’idea di essere inghiottiti vivi o di mangiare a propria volta: si chiama vorarefilia.
Questi individui hanno, la maggior parte delle volte, delle capacità relazionali estremamente scarse.
In maniera decisamente malata, il cannibalismo rappresenterebbe anche una sorta di forma estremamente morbosa e perversa di amore. Provate a pensare ai morsi, alle leccate e a tutto ciò che si fa sotto le lenzuola con il proprio partner… anche quello è una forma (naturalmente latente e per niente patologica) di cannibalismo: questa forma d’amore ha come scopo quello di tenere una parte dell’altro sempre con sé.
Naturalmente non si può pensare ai serial killer come a dei grandi amatori incompresi: essi sono dei mostri che considerano la vittima alla stregua di un oggetto sessuale. La sottomissione è completa, dato che avviene una vera e propria distruzione del corpo. Non bisogna mai dimenticarlo.
E se posso permettermi, l’idea che il corpo possa essere annientato in questa maniera, inghiottito e digerito da un altro essere umano… mi fa atterrire! Non riesco a descrivere quanto sia orribile il cannibalismo criminale. Dobbiamo ricordare che non stiamo parlando, come accennavo sopra, di un consumo di carne umana consensuale, dettato da qualche rito religioso o da una forma di cultura o dall’istinto di sopravvivenza nei casi estremi. Nel Medioevo europeo succedeva non solo in situazioni di emergenza come le carestie e i lunghi assedi, ma anche come atto di sfregio nei confronti del nemico. Esiste un libro di Angelica A. Montanari intitolato “Il fiero pasto – Antropofagie medievali”.
Un altro esempio di necessità ai limiti della disperazione, purtroppo, è avvenuto nell’ottobre del 1972: un bimotore cadde sulla Cordigliera delle Ande, le 16 persone che sopravvissero all’incidente furono costrette all’atto estremo di nutrirsi della carne umana degli altri viaggiatori morti. Sopravvissero per 72 giorni prima di essere salvati.
Ritornando al discorso sui serial killer, parliamo di veri e propri malati di mente che godono letteralmente nell’uccidere qualcuno e farne uno scempio culinario.
E pensare che un individuo come Sagawa sia a piede libero e che venga considerato alla pari di una celebrità di serie B… mi sembra abominevole, una mancanza di rispetto senza eguali nei confronti di quella povera ragazza a Parigi, uno sputare sulla sua morte. A dir poco vergognoso.
Credo sia abbastanza difficile definire un tizio del genere completamente pazzo o completamente in grado di intendere e di volere: come si può arrivare a una conclusione certa quando è evidente che egli sia a conoscenza dei suoi crimini, ma allo stesso tempo li considera qualcosa di quasi normale?
Sul tema potremmo soffermarci fino a domani, ma credo che i punti salienti, a grandi linee, ve li ho spiegati tutti. Anche se un altro interrogativo rimane: che sapore ha la carne umana? Alcuni dicono di pollo, altri dicono che è dolciastra, altri ancora dicono che alcune parti del corpo si sciolgano in bocca… è un mistero che, per fortuna e spero, non avrò mai modo di scoprire.
Insomma… “Vorrei che potessimo parlare più a lungo, ma sto per avere un vecchio amico per cena stasera. Addio.” (Hannibal Lecter – “Il silenzio degli innocenti)